Manfredini, il ferrarese che illustrò Dante

A lui, nel 1904, fu commissionata un’edizione popolare e divulgativa della Divina Commedia. La città lo riscopre con una mostra

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di Francesco Franchella

Sergio Corazzini, Desolazione del povero poeta sentimentale – "…Oggi io penso a morire. Io voglio morire, solamente, perché sono stanco; solamente perché i grandi angioli su le vetrate delle cattedrali mi fanno tremare d’amore e di angoscia; (…) Vedi che io non sono un poeta: sono un fanciullo triste che ha voglia di morire". A cavallo tra Otto e Novecento, si colloca una generazione di poeti, per lo più crepuscolari, morti giovani: Guido Gozzano (32 anni), Fausto Valsecchi (23 anni), Corazzini stesso (21 anni). Circa un secolo prima, Goffredo Mameli morì a 21 anni, né si può considerare vecchio il buon Raffaello, che morì nel 1520 a 37 anni.

I geni sono tormentati e molti hanno una sorte infelice: vuoi per malattia, vuoi per follia, spesso hanno una vita breve, durante la quale alcuni riescono comunque a esprimere la loro tensione artistica; altri la lasciano in potenza; altri ancora, la esprimono solo in parte. È il caso di Dino Campana, che passò metà della sua esistenza in manicomio. È il caso di Manfredo Manfredini, che in manicomio ci morì e che di suo ci lasciò ben poco. Talmente poco, che l’Italia – come spesso, colpevolmente, fa – se l’è dimenticato. Eppure, a settembre, assessorato alla cultura e segreteria del sindaco di Ferrara hanno organizzato una mostra, curata da Lucio Scardino e Filippo Manvuller e dedicata a Dante, il cui fulcro, cardine e principale protagonista è proprio lui: il ferrarese Manfredo Manfredini.

Ma chi era? Manfredini nasce a Ferrara il 15 luglio 1881, in via della Ghiara 50 (ora XX Settembre). La madre, Maria, è una Barbi Cinti, famiglia che possiede una straordinaria collezione d’arte di circa 600 dipinti, in cui si trovano opere di Cossa, Dosso Dossi, Bononi, Garofalo…insomma, è presumibile che prime suggestioni visive e gusto estetico del piccolo Manfredo partano già da qui. Nel 1891, la famiglia si trasferisce nelle Marche, dove estro artistico e ambizioni di Manfredini cominciano a palesarsi, tanto che decide di spostarsi a Firenze. Come suppone il critico Scardino, è probabile che lì frequenti i corsi della Libera Scuola di Nudo e che il primo contatto con l’editore Nerbini l’abbia nel 1904. Nerbini commissiona al giovane un’edizione popolare e divulgativa della Divina Commedia: lo considera non solo abbastanza talentuoso da illustrare i canti danteschi, ma anche sufficientemente colto per eseguirne una reinterpretazione riassuntiva. Manfredini, però, non riesce a completare l’opera: arriva al canto XIII del Purgatorio, per un totale di 65 illustrazioni, di cui 25 saranno esposte nella Sala d’Onore del Comune di Ferrara a settembre, per la mostra ‘Manfredo Manfredini e il mito di Dante a Ferrara tra ‘800 e ‘900’.

L’interruzione coincide con la morte per tisi, il 31 maggio del 1907. Consapevole della malattia, il 15 aprile smette di disegnare e si reca a Milano: lì si trova la cantante lirica, Salomea Krusceniski, per la quale il pittore prova una sorta di amore ossessivo. La segue ovunque, spesso con gesti plateali e lei si sente vittima di stalking. L’ultimo atto si dovrebbe svolgere, per l’appunto, a Milano: come riportano le cronache dell’epoca, Manfredini si presenta davanti a lei con una pistola carica, un coltello e una bottiglietta di vetriolo. È probabile – suggerisce Scardino – che voglia sfigurarla e poi suicidarsi, ma viene bloccato dalle forze dell’ordine e rinchiuso nel manicomio di Mombello, e lì trascorre i suoi ultimi giorni.

Ebbene, l’amore patologico per Salomea è, sì, la causa della sua triste fine, ma è anche il motore che anima la sua lungimirante follia artistica: una follia che gli fa anticipare talune avanguardie, con oniriche illustrazioni, quasi misteriche, che bene restituiscono il senso dell’oltretomba. Salomea è il principio e la fine della sua opera. La somiglianza tra la cantante e la raffigurazione di Beatrice nel II canto dell’Inferno non è un caso: lì, vi si legge tutta la dialettica tra amore e inquietudine. Uno sdoppiamento che pare ossimorico e che, su carta, diviene unitario: è l’opera di un folle alla ricerca di un’emozione straniante. La Beatrice di Manfredini non ha effetto beatificante, no. Aleggia in un’atmosfera rarefatta e infernale. Non è il medium per il divino: è piuttosto immersa in un’irraggiungibile armonia che la rende quasi altezzosa. Esclude l’artista con lo sguardo: è un sogno nell’Inferno e, in quanto tale, è decontestualizzato, è sospeso, è surreale. È geniale, nell’inconsapevolezza di un ventenne morto troppo giovane. E, grazie a Ferrara, riportato in vita.