Il giro di pedofili e la morte di Willy. Una madre: "Abusi anche su mio figlio"

Il racconto a distanza di anni

Il luogo dove fu ritrovato il cadavere di Willy Branchi

Il luogo dove fu ritrovato il cadavere di Willy Branchi

Ferrara, 1 maggio 2016 - La televisione alta, quasi per voler nascondere le parole. I ricordi che, a distanza di tanti anni, vengono sputati fuori con arrendevolezza. Perché funzionava così per chi finiva nella rete. E veniva sfruttato, violentato, qualcuno, addirittura, sbeffeggiato da altri al bar. «Mi dava cinquemila lire ogni volta», racconta chi, in quella gabbia di pedofili, venne attirato. La sua, e quella della mamma che gli sta accanto, è una storia che ti lascia impotente. «Lo sgridavo sempre, gli dicevo stai attento», sussurra dolcemente la donna. Un sospiro lungo, poi quell’inferno che si riaccende all’improvviso come un flash che acceca e brucia gli occhi: «Ogni volta lo portavano via con la macchina. Quegli uomini di Goro, ma non solo. Gli dicevano: dai che andiamo a fare un giro».

E lui, quello che all’epoca era solamente un ragazzetto e oggi ha oltre 40 anni, si fidava e accettava l’invito degli orchi. «Il giro di pedofili? Sì, esisteva. Ogni tanto di notte mio figlio non tornava a dormire – riprende lei –. Poi una sera lo siamo andati a cercare e lo abbiamo trovato in un paese vicino, a Bosco Mesola».

«C’era un uomo che mi diceva: vieni che mangi qui da me», e lui andava, attirato verso quel mondo dal quale, per soddisfarne i vili desideri sessuali, riceveva una mancia di cinquemila lire. Cosa avveniva quelle volte, cosa ti facevano? La domanda che esce con un filo di voce. «Niente». Risponde lui prima di ricadere in un lungo silenzio che vale più di mille parole. Le vittime di quegli uomini ai quali è arrivata oggi l’inchiesta sull’omicidio di Vilfrido Willy Branchi, non venivano scelte a caso. Quelle bestie preferivano ragazzi facilmente adescabili, quasi tutti di famiglia umile, non disdegnando giovani con deficit cognitivi. Come Willy. «Gli dicevo – continua la donna – guai al mondo se vai ancora là con quelle persone, altrimenti te le do». Invece succedeva ancora e ancora. Quante, ti ricordi? «Tante volte», dice piano lui prima di fare il nome di un uomo. Uno di quelli da cui subiva abusi.

«Mi veniva a prendere nel pomeriggio e mi portava a casa sua». Ma ciò che succedeva in quel mondo maledetto, veniva sommerso. Le stesse vittime oggi dicono di non aver mai parlato con i carabinieri. «In caserma? – afferma la madre mostrando sul volto un sorriso amaro – E cosa ci andavo a fare?». Perché c’era paura del dopo, c’era vergogna che quella storia finisse in pasto ad una comunità dove si conoscevano tutti. Così si preferiva tacere e ingoiare il dolore. Andando avanti. Si parla di Willy e i discorsi si bloccano. Ora tutto sembra tabù. Una vicenda da non tirar più fuori, «poverino, lui è morto», l’unica frase che esce dalla signora. Quegli uomini abusavano anche di Vilfrido?, si chiede rivolti al figlio. Mentre sta per dire qualcosa, è la donna a interrompere: «No, Willy non lo conosceva. Era più vecchio di lui». Poi picchia una mano sul tavolo e lo fissa. No, di Willy non si deve parlare. Non si può parlare. Di quel ragazzo massacrato di botte, ucciso e buttato come una carcassa sull’argine da mani ignote, nessuno ne vuole sapere. Perché «poverino, lui è morto».