Saremo davvero in grado di staccare?

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Pierfrancesco

Giannangeli

Eccoci arrivati anche quest’anno a Ferragosto, la famosa "festa di Augusto", e quindi di agosto, di romana memoria. Anche se tecnicamente si tratta solo di un giorno, è l’intero periodo, un paio di settimane, in cui si rallenta o proprio ci si ferma. Negli ultimi giorni, in più occasioni, c’è stata una riflessione pubblica sul senso della pausa, ovvero se il riposo sia effettivamente tale, oppure un’incombenza noiosa. Una sorta di rito, dunque, al quale non ci si può sottrarre, anche se lo si farebbe volentieri. Ne ha parlato, ad esempio, Arthur C. Brooks sulla storica rivista The Atlantic, dove scrive, e il suo pezzo è stato rilanciato da una newsletter del Corriere della Sera. Brooks si dice incapace di non fare nulla, dopo aver diligentemente organizzato di staccare la spina per un paio di settimane. Eppure, i dati dicono che lo smart working - quella che doveva essere la grande soluzione pure nel post pandemia, dopo che durante la fase più acuta è stata una necessità, e invece si è rivelato un grande inganno - ha fatto aumentare di una cinquantina di minuti il tempo lavorativo medio sulla distanza di una settimana. Allora, staccare la testa dal lavoro sarebbe necessario, ma sembra che siamo sempre meno in grado di farlo: qualsiasi tipo di occupazione va bene, pur di fare qualcosa, dopo che pochi giorni di riposo ci hanno mandato in crisi dai nostri ritmi. Semplice noia, perché siamo sempre più occupati e quella ci pare la normalità? Voglia di sottrarsi alla disapprovazione sociale del dolce far niente? Veramente sembrerebbe qualcosa di più profondo (e preoccupante). Sempre The Atlantic ci informa infatti che appena prima di andare in ferie abbiamo un picco di iperattivismo per non lasciare dossier aperti, quindi ci si affatica per andare in vacanza. Per fortuna poi arriva la professoressa Jennifer Petriglieri a dirci che questa è una reazione tipica negli Stati Uniti e insolita in Europa. Ecco, speriamo di non importarla e buon Ferragosto.