Willy Branchi, don Tiziano indagato anche per calunnia

Nuove accuse al sacerdote per aver indicato una famiglia come autrice del delitto

Don Tiziano Bruscagin, nel 2015 all’ingresso in tribunale

Don Tiziano Bruscagin, nel 2015 all’ingresso in tribunale

Ferrara, 21 aprile 2019 - Avrebbe calunniato un’intera famiglia di Goro (padre e due figli), accusandola – scrive il pm Andrea Maggioni –, sapendola innocente, di aver ucciso Willy». Vilfrido Willy Branchi, 18 anni, massacrato la notte tra il 29 e il 30 settembre 1988 a Goro, poi lasciato nudo lungo l’argine. Sulla scena dell’inchiesta, che sta cercando di fare luce sugli assassini, ricompare ancora lui, don Tiziano Bruscagin, per 32 anni parroco di Goro, oggi collaboratore pastorale nel Padovano.

Indagato due volte per falso in quattro anni e ora indagato pure per calunnia nei confronti di Ido Gianella, oggi deceduto, e dei figli Francesco e Alfredo, indicati dalla Procura quali parti lese. «Ora basta accuse fasulle. Ci siamo sottoposti volontariamente al test del Dna, non abbiamo nulla da nascondere», così l’avvocato Dario Bolognesi.

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Accuse. Quattro gli episodi addebitati nel 415bis, l’atto che chiude l’indagine nei confronti del don e che solitamente porta al processo: 17 aprile 2015, 14 e 21 settembre 2018, 10 ottobre 2018. Quattro ‘chiacchierate’ in via Mentessi. Si parte dal 2015, quando Bruscagin si presentò davanti all’allora pm Giuseppe Tittaferrante: «Le chiacchiere riportavano a Ido Giannella – disse –, perché era macellaio (Willy sarebbe stato ucciso con una pistola usata per uccidere i maiali, ndr). Willy regolarmente parcheggiava la sua bici nel garage di Gianella e le voci erano che il ragazzo fosse stato usato...».

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Anche al comandante dell’Arma di allora, chiese il magistrato, aveva fatto lo stesso nome? «Sì, – la risposta – ho sempre detto che si trattava di Giannella. Si diceva che avessero collaborato i figli nella pulizia di tutto, ovvero il trasporto del cadavere e la sparizione dei vestiti». Tre anni dopo, nuovo avviso di garanzia per falso, altro viaggio in Procura questa volta dal pm Maggiori: «Quattro o cinque anni dopo l’omicidio, – disse Bruscagin il 14 settembre 2018 – sono stato contattato da due carabinieri in borghese, uno con il codino: ho raccontato quello che sapevo che, sostanzialmente, per quello che ricordo, coincideva con le dichiarazioni da me fatte al giornalista del Carlino (dove fece i nomi dei Gianella: per occultare il cadavere, il padre non poteva da solo trasportare un ragazzo di 90 chili, ndr)».

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Una settimana dopo, il 21 settembre, altro interrogatorio e stesse frasi: «La sera dell’omicidio, Willy avrebbe raggiunto il garage di Gianella... che poi lo avrebbe ucciso. Si diceva che per il trasporto del cadavere si fosse fatto aiutare dai figli». Infine il 10 ottobre 2018: «Non posso che ribadire che le informazioni in mio possesso le ho ricevute da una serie indistinta di persone. E che io, in altre occasioni, anche parlando con il suo collega nel 2015 (il pm Tittaferrante), ho definito voci del popolo».

L’indagine. Ma secondo gli inquirenti, don Tiziano né nell’88 con il maresciallo De Luca – che incontrò e gli disse di aver ricevuto la confessione dell’omicidio –, né nel ’96 con un altro carabiniere, fece il nome dei Gianella. Cosa che fece, invece, per la prima volta solo nel 2014 al nostro giornale nella conversazione registrata e che riaprì l’inchiesta. Don Tiziano Bruscagin, per le accuse, avrebbe potenzialmente depistato le indagini con il suo comportamento. Tenendosi, ancora oggi, dentro di sè un immenso segreto.