Cognetti: «Siamo un paese di montagne. Vanno raccontate di più»

Intervista al vincitore del Premio Strega, uno dei protagonisti degli incontri di Internazionale. «L’amicizia? Abbiamo barattato la qualità con la quantità»

Paolo Cognetti con Daria Bignardi e Vasco Brondi (foto BusinessPress)

Paolo Cognetti con Daria Bignardi e Vasco Brondi (foto BusinessPress)

Ferrara, 30 settembre 2017 - Come scegliere il proprio spazio nel mondo? Lo spiega Paolo Cognetti, vincitore del Premio Strega con Le otto montagne (Einaudi) e oggi 30 settembre ospite alle 14.20 con Vasco Brondi a Internazionale a Palazzo Crema.

Nel suo ultimo libro si parla tanto di amicizia, eppure oggi c’è chi conta gli amici su Facebook. Come la vede?

«Abbiamo scambiato il valore dell’amicizia barattando la qualità con la quantità. Credo invece sia importantissimo avere poche persone intorno, che non siano i nostri parenti o genitori. Le persone che ci scegliamo nella vita, che ci assomigliano, che desideriamo coltivare».

Come è nata la necessità di scrivere Le otto montagne?

«Era una storia che avevo per le mani da molto tempo. A volte fare lo scrittore non significa tanto inventare le storie, ma metterle insieme, mettere insieme i pezzi che conosci perché li hai vissuti. C’è un’infanzia molto simile a quella che ho avuto io, poi c’è un incontro con una persona speciale che è un mio amico montanaro, il rapporto con il padre. Sono cose che mi appartengono, solo che ci si mette degli anni a vedere la storia, e anche ad avere la scrittura per poterla raccontare. Penso ci sia un’età in cui uno è pronto a raccontare le storie che sono importanti per sé».

Quali valori bisognerebbe portare in pianura? Quali, invece, dalla città alla montagna?

«Dalla montagna un’idea di semplicità e autenticità: servono davvero poche cose per vivere, e ciò vale sia per i beni materiali che nelle relazioni umane, che in montagna sono più dirette. Su dalla città la produzione culturale e artistica, come sto cercando di portare su anch’io. Lo spopolamento della montagna è stato un fenomeno drammatico, che nella seconda metà del Novecento ha portato via non solo la gente, ma anche quello che la gente fa. È un mondo che dal punto di vista naturale è bellissimo, da quello umano è tremendamente impoverito. Così con alcuni amici ho organizzato un festival in mezzo a un bosco a 1800 metri di altezza. Ora sto costruendo un rifugio: sarà un luogo di incontri, di scuola, di elaborazioni e scambi. Poi sto scrivendo di montagna. A modo mio porto giù delle storie e porto su dei lettori, il mio compito è fare da tramite tra la città e la montagna. Io sono nato a Milano, ma ho scelto come luogo elettivo la montagna. Sono però diviso a metà, per questo mi sento di fare da ponte, da comunicatore».

La montagna è più solitudine o più condivisione?

«All’inizio è stata molto solitudine, di cui avevo bisogno per fare un po’ di pulizia e di silenzio nella mia vita. Ben presto però la solitudine è diventata una condizione che non portava lontano. È come una stanza in cui ci si rifugia ma poi si esce e si continua vivere. Per questo vorrei che la montagna fosse sempre più condivisione».

Internazionale è il giornalismo da tutto il mondo, racchiuso in tre giorni e molti incontri. Quali storie dal mondo la incuriosiscono di più? Quali fatti politici, sociali o culturali segue maggiormente?

«Sono un lettore di giornali super locale, ovvero leggo quello che succede nella mia valle, e al contempo mi interessa quello che accade nel mondo. Sento invece molto asfittica questa ossessione dei giornali italiani dove sembra che il mondo sia solo l’Italia. In questo momento sembra che l’Europa sia il luogo centrale, più dell’America di cui sono stato un grande e appassionato lettore. Credo che le cose importanti, quelle in cui si gioca la nostra epoca, stiano di nuovo succedendo nel nostro continente».

Raccontano la montagna i giornali? Dovrebbero farlo di più?

«I giornali generalisti non raccontano affatto della montagna, eppure è un paesaggio che ci appartiene, non è esotico per l’Italia. Siamo un paese di montagne, dovrebbero essere raccontate di più».

Nell’incontro che la vede coinvolta a Internazionale a Ferrara ci sarà anche Vasco Brondi. Lo conosce? Lo ascolta?

«Lo ascolto sin dall’inizio, abbiamo in comune qualcosa di importante nella formazione. Mi sembra racconti la Milano in cui sono cresciuto. Il senso di abbandono delle periferie e la desolazione del crescerci dentro, sono esattamente le sensazioni che ho vissuto io negli anni ‘90. Le sento molto vicine».

Artisticamente vi siete un po’ rincorsi. Lui da Ferrara a Milano, lei da Milano a Val d’Ayas...

«È bello che le persone si trovino i loro posti, mi fanno più paura quelli che rimangono tutta la vita a vivere dove sono nati. Su certe cose mi sembra siamo tornati indietro. Mi colpisce sentire certi ragazzi giovani che dicono “il mio valore principale è la famiglia”, come se ci fosse una paura di uscire dal nido e di trovare il loro posto nel mondo. Forse è la paura che li spinge a tornarsene a casa. Non c’è niente di male nel farlo, ma sarebbe bello che nel mezzo ci fosse un bel viaggio».

Se potesse portare con sé in montagna un suo maestro letterario, chi porterebbe ?

«Mi piacerebbe una bella camminata con Hemingway, e poi una sera in rifugio. So che l’ha amata molto, sarebbe sicuramente un buon compagno di montagna».

C’è un libro perfetto da consigliare a chi decide di vivere la montagna? O meglio, a chi decide di non aver paura?

«Per me è stato importantissimo Into the wild, mi ha deviato la vita, mi ha fatto tornare in mente delle cose, mi ha fatto prendere delle decisioni. Spero che succeda lo stesso anche a qualcun altro».

Anja Rossi