Forlì, 3 ottobre 2011 - «IO sono nessuno»: era la frase che Annalena Tonelli ripeteva sempre a chi voleva farle un’intervista o un reportage. Pur conosciuta in tutto il mondo, Annalena aveva difeso con fermezza il silenzio su di sé e la sua opera, come aveva sottolineato nell’ultimo incontro pubblico nel giugno 2003, quando si recò a Ginevra per ricevere il prestigioso premio Nansen. Tre mesi dopo venne uccisa in Somalia. Era il 5 ottobre del 2003. Annalena: straordinaria, sempre. Aveva fatto sua una frase di Teilhard de Chardin ‘Non sono, né voglio, né posso essere un maestro. Prendete di me ciò che vi aggrada e costruite il vostro personale edificio… io non desidero altro che di essere gettata nelle fondamenta di qualcosa che cresce…». Davanti a frasi come questa, vi è solo l’inadeguatezza di qualsiasi commento che finirebbe per tradire la sua volontà di silenzio. La sua fu una scelta di vita radicale.
NATA nel 1943, laureata in legge, con diplomi di controllo della tubercolosi e della medicina tropicale, Annalena lasciò l’Italia nel 1969 per dedicarsi agli ‘ultimi’, i sofferenti, i poveri, perché voleva seguire solo Gesù Cristo. Si recò prima in Kenia, poi in Somalia, ma, prima di lasciare Forlì, si era dedicata per 6 anni ai poveri dei bassifondi della città, ai bambini del brefotrofio e agli handicappati mentali. Nel 1963 contribuì a fondare il ‘Comitato per la lotta contro la fame nel mondo’ di Forlì, il quale, col ricavato delle raccolte di cose usate e mercatini, finanziò i progetti di Annalena, allargandosi poi ad aiutare ospedali, ambulatori, missioni, casi di emergenza nazionale ed internazionale in tutto il mondo e soprattutto ad aiutare le popolazioni a sviluppare le proprie potenzialità, secondo il principio ispiratore di Annalena. Chiediamo a Roberto Gimelli, presidente del Comitato che cosa ha lasciato Annalena. «Il dono del bene che lei ha incarnato e che ci ha contagiato attraverso la testimonianza della sua vita, in cui il bene ha superato il male».
«LA sua stessa morte è stata un seme, perché tutto ciò che Annalena ha seminato è germogliato, a Forlì come in Africa o dovunque ella è andata. Diceva: altri lo vedranno. A me interessa solo seminare. E il seme si è sviluppato».
DI qui dunque deriva l’‘I care’, l’attenzione amorevole) per gli ultimi... «Annalena esaltava il primato della vita concreta. Diceva: «Il nostro compito sulla terra è far vivere». Concepiva l’umanità come fine e non come mezzo. Nella sua vita, pur restia a parlare in pubblico, Annalena ha scritto migliaia di lettere facendosi carico dei problemi di tutti come riferiscono queste sue parole: «Non è possibile amare i poveri, senza desiderare di essere come loro: dei poveri». Annalena è stata donna d’azione, tenace, con una fede che non ha mai vacillato.
«Aveva una grande gioia di vivere e di agire, ma tutto ciò nasceva da una sua naturale propensione per la religiosità a Dio. Diceva: «La passione per l’uomo e i brandelli di umanità ferita mi hanno portato a Dio. E, dopo, Dio e l’uomo sono stati l’unica ragione della mia vita».
PER 35 anni Annalena ha vissuto coi somali, rinunciando ad essere occidentale e diventando ‘come loro’. Che cosa è rimasto in Africa della sua opera?
«Annalena dormiva due ore per notte. Era molto attiva. Per lei la vita ha senso solo se si ama. In Somalia ha fondato la scuola per sordi, tuttora assai attiva. In Kenia è nata la fondazione Annalena Trus, guidata da Mohamed Ibrahim, prima infermiere e oggi continuatore dell’attività di Annalena». Nel gennaio del 2003, quasi presagendo la sua fine, Annalena scriveva «forse sono alla fine della mia vita. Ricordo il passato... E vorrei solo passare quello che mi rimane su questa terra, stringendo la mano di uno che muore e sorridergli teneramente». Di qui il senso della frase con cui abbiamo iniziato questo articolo. Annalena voleva esse ‘nessuno’ nel senso «di essere stata libera di appartenere a tutti (le parole sono di Maria Teresa Battistini). Ai poveri, prima di tutti».
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