2009-08-04
di FILIPPO DIONISI
L’ARTE E LA FOLLIA, il diverso che terrorizza il pubblico di un Paese strozzato da un nastro di convenzioni preconfezionate che sono il valium rassicurante per tenersi alla larga da ogni dubbio, i grandi maestri che scompaiono e l’odiosa mania di spingere tutto dentro le forme categoriche che è lo sport preferito di alcuni critici. Protagonista dell’ultimo appuntamento con Serate d’onore nel Chiostro di San Martino (stasera alle 21.30), Pippo Delbono prende spunto dal suo Racconti di giugno per una confessione senza i veli e i sottotitoli ai quali la gente deve imparare a rinunciare. Perché l’arte non è qui per essere capita. Ma per colpire.
Il nucleo di ciò che lei fa è nella libertà e nella liberazione. In questo senso, Bobò (l’attore sordomuto che dopo 40 anni di ospedale psichiatrico è diventato parte integrante della sua compagnia) è forse la metafora vivente del suo modo di intendere il teatro…
«Bobò ha un rapporto libero col teatro, in qualche modo primordiale. Anche lui è perfettamente a proprio agio, sta nei tempi, vive di istanti. Ed è una cosa essenziale. Il nostro è stato un incontro dettato da una necessità vitale che si è rivelato poi un grande incontro artistico. Quando Bobò sta in scena, può portarsi dietro quello che vuole».
A proposito di incontri decisivi, il 30 giugno è morta Pina Bausch...
«Pina Bausch è stata una donna fondamentale. E’ venuta anche ai miei spettacoli e io ho lavorato con lei. Abbiamo avuto modo di incontrarci molte volte. Spesso sono stati incontri veloci ma importanti. La sua è stata per me la figura di una maestra. E’ stata la persona che nell’87 mi disse che avrei dovuto seguire la mia strada di creazione. E’ stato un atto d’amore, che è tipico dei grandi maestri: incoraggiare in un passo. Poi è stato anche un rapporto personale. Ma è triste, tutti i grandi maestri stanno morendo. E per noi, che prima di essere innovatori siamo stati per molto tempo allievi, significa perdere quelle figure che hanno trasmesso qualcosa, il teatro come lavoro, nel senso di un modo diverso di creare».
L’arte e la follia...
«Beh, l’arte non può essere che follia, nel senso dell’essere liberi, fuori dagli schemi. Poi c’è un altro tipo di follia, quella della politica e della morale, della religione, che è schizofrenica. Ma la follia come atto di libertà è fondamentale per la creazione. Bisogna avere spazi di volo. E invece è diventato molto normale preoccuparsi della morale e dei codici, perché il pubblico ha paura di sentirsi dire qualcosa che lo mette in dubbio. Si chiude perché ha paura di non capire. Ma l’arte non la si deve capire. L’arte deve colpire. Persino Dante non va capito, deve dare immagini. E invece è diventato normale pensare ad un rapporto scolastico con la cultura teatrale».
Al Festival di Avignone, La menzogna, lo spettacolo sulla tragedia della Thyssenkrupp, ha ottenuto un successo strepitoso. In Italia invece la questione è diversa…
«Il nostro Paese è senza dubbio all’avanguardia nella moralità culturale, religiosa e politica. Persino i nostri teatri diventano teatri di tranquillità. Perché puoi fare uno spettacolo su Che Guevara totalmente borghese ma la svolta è soprattutto nel linguaggio. Bisogna uscire fuori dagli schemi del linguaggio, altrimenti il teatro muore. Bisogna sconvolgere col disequilibrio».
La sensibilità dell’innocenza perduta amplificata dalla fisicità dell’emarginazione: i suoi attori straordinari sono il tramite per leggere il teatro con la vita?
«Qualche critico ha provato a dire che io lavoro con persone disadattate… In realtà, ci sono anche 8 laureati e poi ci sono persone che arrivano da zone diverse. Ma c’è un rapporto tale per cui ogni definizione diventa patetica. Se l’arte è follia, queste persone sono assolutamente dentro i canoni. La follia più terribile è quella di essere diversi. Semplicemente, le persone diverse sono più vicine alla bellezza. Gli altri sono impiegati».
Al Festival di Locarno dedicheranno una retrospettiva alle sue opere cinematografiche. E presenterà fuori concorso La paura, girato con un telefono cellulare.
«Il cinema è proprio l’istante, la possibilità di fermare qualcosa che poi è irriproducibile, almeno per come lo intendo io. Il cinema può raccontare dei paesaggi e ti permette di incontrare persone e vite che non puoi portare in un teatro, puoi entrare più nell’anima. Il teatro impone delle esagerazioni dei toni, a meno che non lavori col microfono. La bellezza del cinema è viaggiare nel tempo e nello spazio, mentre forse il limite è la solitudine. Perché andare a teatro è un rito collettivo, mentre al cinema sei tu con lo schermo. Mi piacciono comunque tutti e due».
Nel teatro contemporaneo, il corpo prende il sopravvento sulla parola. Il passo successivo è la rivincita delle protesi, senza l’attore in scena?
«Io sono un po’ all’antica. Il teatro è corpo, la parola è corpo. Mi sembra che l’essere umano sia fondamentale. Quindi no, a meno che gli attori non diventino il pubblico. Se mantengono il pubblico, si può fare. L’importante è il flusso di umanità, la coscienza del contatto, il rito collettivo. L’importante è che ci siano».