Mercatone Uno, parla il fondatore: "Mi sono ammalato, è crollato tutto"

Intervista esclusiva a Romano Cenni: "Avevo seimila ragazzi d’oro"

Romano Cenni con Marco Pantani (foto dell’archivio di famiglia)

Romano Cenni con Marco Pantani (foto dell’archivio di famiglia)

Imola (Bologna), 28 gennaio 2016 - Per anni ha regalato sogni. A chi doveva arredare casa, ma non aveva soldi. A chi cercava impiego in una catena solida nazionale. A chi amava lo sport e le grandi imprese: nel calcio con il Bologna F. c. e nel ciclismo con Ole Ritter prima e l’indimenticato Marco Pantani poi. Tutti successi firmati Romano Cenni, 83 anni, patron del gruppo Mercatone Uno che dal 1978 a oggi ha rivoluzionato il settore retail aprendo quell’anno il suo primo negozio, lo storico Mercatone Germanvox a Toscanella di Dozza.

Un’industria che, negli anni d’oro, dava lavoro a oltre 6mila persone, ma che da aprile è in amministrazione straordinaria speciale, con nove società finite nelle mani di tre commissari nominati dal Governo. Schiacciato dai debiti (425 milioni di euro, 700 contando il debito infragruppo), ora il futuro del gruppo passa da una cessione in continuità: ci sono 53 manifestazioni d’interesse, anche solo per singoli punti vendita. Di 78 negozi, 56 sono attivi, altri quattro riapriranno entro giugno, mentre gli altri restano sospesi. Sospesi come il futuro dei 3.071 dipendenti in cassa integrazione.

 

«Sono partito dicendo voglio fare qualcosa di importante. Io, figlio di braccianti. E ho fatto il Mercatone. Poi, sa, la vita...». Già, la vita, quella che con la complicità di una salute ballerina lo ha costretto da tempo a ritirarsi a vita pressoché privata, lasciando ad altri il gruppo da lui fondato. Lui che, ironia della sorte, fermo sulla sedia non c’è mai stato un giorno. Sette su sette al lavoro, lontano dalla mondanità che poco si addice alla sua indole. Oggi, però, il ‘suo’ Mercatone è in mano ai commissari.

Cenni, se potesse cambiare qualcosa del passato, lo farebbe?

«Indubbiamente. Costruirei per il Mercatone un struttura più importante. La mia non lo era. C’ero io, poi bravissimi ragazzi nei negozi. Ma non dirigenti. Sono cinque anni che non vado più a lavorare, per malattia. Ho lasciato l’azienda in mano ad altri... È andato tutto distrutto».

C’è chi le recrimina di non aver ‘alleggerito’ la struttura, che bisognava lasciare a casa dei dipendenti.

«Bisognava non aver bisogno, ecco. Non è semplice lasciare a casa la gente. Da povero montanaro nato in collina, a 10 chilometri dal centro di Imola, con le candele in casa, ero riuscito a dare lavoro a 6mila persone. Il Mercatone doveva restare lì per quei lavoratori che hanno mutui, comprato casa, messo su famiglia. Allora sì che avrei fatto un capolavoro».

E invece la fine del Mercatone sembra passare proprio dalla vendita.

«Vedranno i tecnici. Vennero da me gruppi importanti che volevano acquistare. Dissi di no, sempre. Non mi interessava, volevo fare una cosa italiana che rimanesse nel tempo. Mi sono divertito molto, ma ho sofferto anche tanto. Forse alla fine di più».

Alcuni dipendenti le chiedono di restare, magari con una struttura più piccola.

«Non bisogna avere 83 anni per restare (ride, ndr). Non ce la farei più. Se devo augurare una fine per Mercatone spero sia italiana, salvando più lavoratori possibili. Mi accontenterei del mio Germanvox (lo storico negozio di Toscanella, fuori dall’amministrazione straordinaria, ndr)».

L’ultimo capitolo della storia è tutto da scrivere. Lei però ne ha scritti diversi. Uno tra tutti: com’è passato da guidare un’azienda che assemblava televisori, la Germanvox, al Mercatone?

«Mi creda, il Mercatone è la diretta conseguenza dei televisori. Rimasi colpito dalla Stalla di Cipolli, un nuovo modo di vendere, di presentare le merci in magazzino. Cambiavano i consumi, la gente. Ma soprattutto ho sempre marginato: il sottocosto non era per noi».

Mercatone, però, per tutti vuol dire Pantani. Che fine farà la biglia-monumento ora che il gruppo è in mano ai commissari?

«Ho voluto la biglia perché non mi sembrava giusta una statua, che sa di morte. E la biglia è mia, appartiene al cortile della torre che sta in una società fuori dalla procedura. Deve restare, sarebbe un’offesa a Marco. Non posso pensare che qualcuno la sposti, poi quando mi tireranno qualche sbadilata di terra sopra...».

Nell’ultimo libro di Beppe Conti (Il mio Pantani. I miei campioni) lei definisce figli adottivi sia Ritter che Pantani. Ma tra i due?

«Sono due persone totalmente diverse. Ma pochi ne nascono come Pantani. Pochi nascono campioni».

Andiamo per un attimo a Madonna di Campiglio, quando Pantani fu trovato positivo. Cosa è mancato?

«Il tecnico. Mancava il ‘papà’. Luciano Pezzi era morto. E se fosse stato vivo, non sarebbe morto neanche Marco, qualche anno dopo».