Segale cornuta, un’alterazione pericolosa

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Una malattia diffusa in tutte le parti del mondo è la cosiddetta Segale cornuta o Mal dello sclerozio delle graminacee, classificata scientificamente come Claviceps purpurea; le piante che più di frequente ne vanno soggette sono segale, orzo avena, frumento, oltre a molte graminacee spontanee. I danni che tale microrganismo arreca possono essere anche di grave entità, per cui è importante ricordare che i cereali infetti, se ingeriti, possono causare all’uomo e agli animali gravissimi disturbi con sintomatologia da intossicazione provocata dal cosiddetto ’ergotismo’ o fuoco di S.Antonio; infatti, saltuariamente, sono stati riscontrati avvelenamenti di bovini e ovini soprattutto nei pascoli montani, in seguito alla ingestione di foraggio erotizzato, cioè infetto. La sintomatologia della alterazione si manifesta principalmente in giugno e luglio: al posto di una o più cariossidi nelle graminacee sopraelencate, compaiono sulla spiga altrettanti cornetti di colore brunastro sporgenti i quali rappresentano i cosiddetti sclerozi del microrganismo, ossia gli organi moltiplicatori della infezione, costituenti l’elemento di maggiore pericolosità in quanto contengono composti chimici altamente tossici quali alcaloidi, ergotina e acido isolisergico. Questi corpuscoli, di forma e grandezza variabile, a maturità cadono sul terreno dove trascorrono l’inverno e in primavera, prima della fioritura delle piante, germinano dando luogo ad un peduncolo e, attraverso un complesso ciclo biologico, diffondono i germi della patologia i quali trasportati dal vento, dalla pioggia e dagli insetti cadono sugli stigmi di fiori delle graminacee provocando i danni sopradescritti. Come interventi di lotta contro l’alterazione non esistono particolari mezzi terapeutici, tuttavia vengono adottate diverse metodologie di analisi per accertare la presenza degli organi infetti nelle farine destinate al consumo umano, procedendo preventivamente a separare con il vaglio gli elementi utili dalle scorie.

A cura di Luigi Marchetti, fitopatologo