Macerata, 22 maggio 2010 - "Quando si lotta contro le organizzazioni criminali non sempre si possono usare i guanti bianchi. Bisogna pensare come penserebbe un mafioso, ragionare come un mafioso. E, in definitiva, essere un po’ 'canaglie', come sono loro".

 

L’ha detto ieri, ai ragazzi dell’istituto per geometri 'Bramante' di Macerata l’ispettore di Polizia Gianni Palagonia, uno 'sbirro antimafia' come lui stesso ama definirsi. Palagonia è il falso nome di un poliziotto vero, che oggi vive in una città del nord, costretto ad allontanarsi dalla sua terra, la Sicilia, per salvare la propria vita e quella dei suoi famigliari dalle minacce di Cosa Nostra.

 

Incalzato dalle domande del vicequestore Pier Nicola Silvis (presenti anche il questore Giuseppe Oddo, il sindaco Romano Carancini e altre autorità), Palagonia ha raccontato in videoconferenza, ma sempre ripreso di spalle per motivi di sicurezza, le difficoltà di chi da vent’anni "sta sulla strada con la paura di morire, costretto a conoscere le abitudini dei figli dei mafiosi meglio di quelle dei propri".

 

Ma Palagonia ha anche raccontato la passione incontenibile di chi, nonostante tutto, non rinuncerebbe mai a compiere fino in fondo la vocazione di un poliziotto, che è quella di "aiutare la gente", con dignità e umanità, svolgendo il proprio mestiere senza risparmiarsi, e usando tutti i mezzi possibili "compresa una buona dose di fantasia".

 

"La mafia più pericolosa è quella in giacca e cravatta" ha concluso; mentre "l’investigatore - scrive nel suo libro 'Il silenzio' - è un uomo solo, che sacrifica molto sul piano personale e all’improvviso si ritrova invecchiato, stanco, logorato, perché quel cancro subdolo che va sotto il nome di criminalità mafiosa è ancora lì davanti, spavaldo, forse scalfito, ma arrogantemente vivo".