Assurdo cancellare la cultura

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Pierfrancesco

Giannangeli

Qualche giorno fa un’università italiana, la Bicocca di Milano, ha cancellato un seminario su Dostoevskij da parte di uno scrittore esperto di cultura russa, Paolo Nori, al fine – diceva la motivazione – di evitare polemiche in un momento di così alta tensione. A stretto giro, dopo la pubblicazione della notizia sui social (che per una volta hanno avuto una funzione positiva), c’è stata la marcia indietro dell’ateneo. Scusi, venga pure, ci siamo sbagliati. A quel punto è stato Nori a declinare l’invito, affermando che il seminario andrà a farlo altrove. Una situazione surreale, che in Italia ancora non avevamo sperimentato, e che invece in altri Paesi grandi e importanti, come gli Stati Uniti per esempio, sta diventando una imbarazzante normalità. L’episodio può rientrare infatti nella fattispecie che va sotto il nome di "cancel culture", cioè il boicottaggio nei confronti di qualcuno contro cui si protesta per le sue azioni o le sue dichiarazioni, anche se costui è vissuto in un’altra epoca. Nato con le migliori intenzioni, il concetto col tempo è andato talvolta oltre i suoi sacrosanti e legittimi obiettivi, colpendo chi semplicemente la pensa in modo diverso. La guerra in Ucraina scatenata dalla Russia ha evidenziato un’estensione dell’idea di "cancel culture": da diverse parti più voci infatti si sono levate nell’affermare che le sanzioni verso Mosca devono colpire, oltre i letterati e gli artisti viventi che non prendono le distanze da Putin, tutta la cultura russa. Francamente appare un’enormità (e, tra l’altro, la biografia di Dostoevskij lo conferma). Che lo dica qualcuno al bar – o al bar dei social, per parafrasare Eco – può anche starci, purtroppo. Che questa idea maturi tra le mura delle istituzioni che hanno il dovere di esaltare il sapere, no. In città c’è un’università antica, bella, solida: stringiamoci ad essa affinché ci aiuti a capire la bellezza necessaria della conoscenza.