Caporalato come neocolonialismo Rendiamo i lavoratori consapevoli

La ricetta di Omizzolo: scuole di italiano nelle comunità degli stranieri sfruttati

Migration

di Giulia Pranzetti

Il caporalato, un fenomeno dalle origini antichissime, ancora oggi insediato nel nostro territorio. Guardando la problematica da un punto di vista storico, è possibile riscontrare come a essere rimasto costante nel tempo sia il triangolo che caratterizza questa realtà, un triangolo che vede come protagonisti l’imprenditore che muove lo sfruttamento, il caporale che fa da intermediario (scelto tra i braccianti per i suoi rapporti con i flussi migratori e per la buona conoscenza della lingua italiana) e il bracciante sfruttato. Nuovo è invece l’intreccio del problema con i flussi migratori, un fenomeno che permette all’imprenditore di operare molto spesso con il raggiro, sfruttando la scarsa conoscenza che questi lavoratori hanno dell’ordinamento giuridico e dei suoi diritti. Verrebbe da chiedersi allora il perché del perdurare di questo orrore e la risposta ci viene dal sociologo Marco Omizzolo, che ha sperimentato in prima persona le atrocità del caporalato, il quale afferma come questa sia una realtà che tocca uno degli aspetti caratterizzanti della natura antropologica: la sete di dominio. È infatti ricorrente la convinzione dell’oppressore di essere non tanto uno sfruttatore, quanto più un civilizzatore, che opera quindi quello che Omizzolo definisce un neocolonialismo sul posto, basato, quest’ultimo, su quegli stessi principi caratterizzanti il fardello dell’uomo bianco di Kipling, che in molte situazioni ha giustificato l’invasione di popolazioni ritenute inferiori da parte di nazioni occidentali. Sono infatti maggiormente riscontrabili fenomeni di caporalato nelle grandi aziende, che hanno quindi le possibilità economiche di dare ai lavoratori salari dignitosi. Che cosa potremmo fare, dunque, soprattutto se la stessa legge 1992016 che riforma l’articolo 603 bis del codice penale risulta essere insufficiente? Dovremmo imparare a non lavorare per, ma a lavorare con, condividendo con i braccianti un pezzo di percorso, stando al loro fianco e non davanti, cercando di comprendere quelle motivazioni culturali ed economiche che portano certe persone ad accettare ritmi di lavoro disumani, l’assenza totale di sicurezza sul lavoro e, nel caso delle donne, doppi abusi, considerando anche quello sessuale. Ed è quello che ha promosso Marco Omizzolo con le scuole sorte all’interno delle comunità degli sfruttati e volte a insegnare un italiano mirato alla conoscenza dei propri diritti, in quanto lavoratori, ma soprattutto esseri umani. Perché noi non dobbiamo mai dimenticarci che dietro a ogni lavoratore c’è una persona con la sua dignità.