Alessandro
Feliziani
Negli ultimi dodici anni la fiducia degli italiani nella magistratura
è progressivamente calata, passando – secondo l’ultimo sondaggio – dal sessantotto
al trentadue per cento: da più di due italiani su tre a meno di un italiano su tre. È il risultato di una crescente insoddisfazione nei confronti dell’amministrazione giudiziaria. Lunghezza dei processi, continui rinvii
di udienze, sviste procedurali ed errori, sentenze a volte non in linea con il comune senso
di giustizia sono alcune
delle cause denunciate dai partecipanti al sondaggio.
In questo quadro e nel pieno della campagna elettorale
per i cinque referendum sulla giustizia del 12 giugno, lunedì
si è svolto uno sciopero
dei magistrati (a Macerata hanno aderito in pochi) contro la proposta di riforma Cartabia.
Sciopero che ha diviso praticamente a metà la stessa magistratura e che molta gente non ha ben compreso. Prima
di tutto perché si fa fatica
a immaginare i magistrati come comuni lavoratori dipendenti
e in secondo luogo perché
è difficile immaginare in Italia un reale pericolo per la loro indipendenza. Semmai
è proprio quella piccola minoranza di magistrati,
che non si è mai preoccupata di "apparire indipendente",
ad avere offuscato negli anni l’immagine dell’ordine giudiziario. Lo stesso sondaggio demoscopico
ha rivelato lo scetticismo
degli italiani anche verso
i referendum sulla giustizia, dimostrando come
il referendum abrogativo – quando non riguardi questioni facilmente comprensibili
e sentite, quali furono
il divorzio e l’aborto – non sia uno strumento idoneo
per intervenire sui tecnicismi delle leggi. Il solo quesito del referendum sulla "separazione delle carriere" si compone
di ben 1.122 parole. Se
al momento del voto l’elettore dovesse leggerlo per intero, fuori dei seggi si formerebbero file chilometriche. Insomma,
la vera riforma della giustizia non si fa né con gli scioperi,
né con i referendum,
ma con la riconquista
da parte della magistratura della fiducia dei cittadini.