"Ceramista nel ricordo di mia moglie Debora Porto avanti la sua arte, lei rimane con me"

Il maceratese Riccardo Mencoboni ha perso la compagna di una vita l’anno scorso: ora lavoro l’argilla come mi aveva insegnato

Migration

di Paola Pagnanelli

"Facendo queste ceramiche, la porto ancora con me. Ogni volta che lavoro l’argilla come mi aveva insegnato Debora, il pensiero va a lei". Mescolando, impastando e colorando l’argilla, Riccardo Mencoboni tiene in vita e nel cuore il ricordo di sua moglie, Debora Mei, uccisa a 51 anni da una rarissima malattia congenita, il 5 febbraio dell’anno scorso. Dolce, sorridente e coraggiosa, Debora Mei soffriva di fibrosi epatica, ma quando nel 2004 aveva scoperto – a dispetto della sua diagnosi – di aspettare un bambino, si era cancellata dalle liste di attesa per il trapianto e aveva accolto il figlio come il regalo più bello e desiderato. Purtroppo poi, malgrado tutte le cure, 16 anni dopo la malattia ha avuto la meglio su di lei, che però ha lasciato dietro di sé una grandissima eredità di colori e sorrisi. Un’eredità che il marito Riccardo ha deciso di non mandare perduta, riprendendo a realizzare le ceramiche con le tecniche che aveva imparato da sua moglie. "All’inizio è stato difficile – ricorda lui –, non volevo saperne più nulla, credevo che non ci sarei mai riuscito. Invece con la forza di volontà ce l’ho fatta, pensando al fatto che quei lavori piacevano anche a me".

Di cosa si occupava prima?

"Ero socio lavoratore della cooperativa "E lucean le stelle", un’etichetta discografica creata da mio fratello anni fa; producevamo dischi di musica barocca e facevamo le fiere più importanti di tutta Europa, dal Salone del libro di Torino a quella di Francoforte. Poi c’erano i concerti di musica barocca in Italia e in Europa; mio fratello è organista e clavicembalista".

E come è arrivato alla ceramica?

"Con Debora nel 2016. Nel 2011, a causa della sua malattia lei, che era impiegata in un centro commerciale, si era dovuta licenziare. Visto che aveva la passione per la ceramica, ha frequentato un corso con Enrico Trillini. Per alcuni anni hanno lavorato insieme, poi lei ha iniziato a lavorare da sola allestendo un laboratorio nel mio ufficio. Eravamo fianco a fianco. Abbiamo iniziato a fare i mercatini insieme, anche perché lei non poteva spostarsi da sola. E quando realizzava i suoi lavori, io ero al tavolo lì vicino e la guardavo. Prima non conoscevo niente di questo mondo. Un giorno, al suo ritorno ha trovato un oggetto sul tavolo, era un portacellulare che avevo realizzato io da solo. Ancora lo conservo. Nel 2017 mi sono licenziato per stare con lei. La malattia era peggiorata, e io ho messo più forze per lei, facevo i mercatini con le sue ceramiche al posto suo. Poi ho iniziato a creare dei piatti. Lei realizzava oggetti molto fiabeschi, fanciulleschi, come i suoi pesci, aveva frequentato l’Accademia; io ero più astratto".

Dopo la morte di Debora, deve essere stato doloroso riprendere le sue cose.

"Ho passato tre mesi bruttissimi. Ero con Debora a Bergamo, in ospedale, quando è morta, il 6 febbraio. Poi c’è stata la pandemia, e con nostro figlio di 16 anni siamo stati tre mesi chiusi in casa. È stato un periodo difficilissimo. Ogni tanto provavo a tornare in laboratorio, a fare la ceramica, a mettere le mani nell’argilla, ma appena toccavo le sue cose vedevo lei e non ci riuscivo. Poi a maggio, con la liberazione dal lockdown, ho lavorato. Ho realizzato piatti, sottopentole e poi ho fatto il mercatino di Porto Recanati, come lo facevo con lei da 5-6 anni tutte le domeniche di luglio e agosto. Adesso noi ambulanti siamo fermi, ma da alcuni mesi ho iniziato a pubblicare su Facebook le cose che faccio. Ho commissioni da amici per vari lavori. Poi quando sarà possibile riprenderò i mercatini".

Come lavora? Segue lo stile di sua moglie o ha una sua strada?

"Porto avanti le cose sue, i pesci o i portamestolo che aveva ideato lei, mi aveva dato delle dritte. Altre cose invece sono mie. C’è molto lavoro perché faccio tutto a mano, parto dai panetti di argilla pronta, la lavoro, la asciugo, c’è la prima cottura a 1.050 gradi, poi si decora, si pittura e si fa la seconda cottura a 980 gradi con la cristallina che rende lucido. Per finire un oggetto possono volerci una settimana o dieci giorni, la cosa più lunga è l’asciugatura. Picasso diceva che tutti almeno una volta nella vita devono provare a lavorare l’argilla, io ho avuto questa fortuna e cerco di portarla avanti. È bello sporcarsi le mani con la terra, e la cosa più affascinante è vedere il lavoro finale: quando si dà il colore questo ha una sua espressione, ma quando lo cuoci per la cristallizzazione cambia, c’è un colore che prima è rosa e dopo la cottura è un blu forte. Non sai mai cosa hai combinato, ho sempre un’ansia quando apro il forno la seconda volta. Ma facendo e facendo si impara. E comunque è sempre una bella sorpresa".

Che significa per lei aver ripreso questa attività?

"Mi sta dando grosse soddisfazioni, grazie alla passione che mi ha lasciato Debora. Anche nostro figlio è contento, perché vede continuare il lavoro della mamma. Lei aveva lasciato dei pezzi dicendo di non venderli mai se le fosse successo qualcosa, e noi li custodiamo in casa, stanno con noi. Facendo questo lavoro, la porto ancora con me".