"Chinnici, Falcone e Borsellino: eroi nazionali"

Oggi Pino Arlacchi presenta il libro "Giovanni e io". "Il loro sacrificio è stato decisivo per rendere l’Italia un Paese più democratico"

Migration

di Franco Veroli

"I tempi sono maturi per riflettere sul significato dell’epoca di Chinnici, Falcone e Borsellino, in modo da poterle assegnare un posto nella vicenda dell’Italia contemporanea. Sono convinto che il movimento antimafia dell’ultimo ventennio del Novecento può essere considerato come la tappa finale, dopo il Risorgimento e la Resistenza, della formazione dello Stato nazionale". È quanto sostiene Pino Arlacchi nel suo ultimo libro "Giovanni e io" (Chiarelettere), che presenterà oggi pomeriggio, a partire dalle 16, nell’auditorium dell’Università. All’iniziativa, che rientra nel ciclo di seminari "Pagine di Storia", coordinati dal professor Angelo Ventrone, parteciperanno il rettore Francesco Adornato e il presidente del tribunale di Macerata, Paolo Vadalà. Docente di sociologia, ex vicesegretario generale e direttore esecutivo del programma antidroga e anticrimine dell’Onu, Pino Arlacchi è stato collaboratore e amico dei giudici Chinnici, Falcone e Borsellino. Deputato e senatore, parlamentare europeo per il Pd, è stato uno dei protagonisti della strategia antimafia italiana negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Durante il suo mandato all’Onu, è stato approvato il trattato mondiale contro la criminalità organizzata transnazionale. È presidente del forum internazionale di criminologia e diritto penale, un’associazione di studiosi d’eccellenza provenienti da 50 paesi. Dal 1993 fino al 2006 è poi vissuto sotto scorta.

Arlacchi, come mai ha deciso di raccontare il suo rapporto con Giovanni Falcone?

"Per tanto tempo sono stato impegnato a realizzare i nostri piani. Ora ho ritenuto che sia giunto il momento di venire allo scoperto, fare una riflessione su quegli anni di battaglie impossibili, ma che abbiamo vinto, inserendo la figura di Falcone e le vicende che poi lo accompagnano in una prospettiva storica". Lei considera i protagonisti nella lotta alla mafia come coloro che hanno portato a termine la formazione dello Stato nazionale, patrioti come Mazzini e Garibaldi.

"Sì. Grazie all’Antimafia e a Mani Pulite, che sono due facce della stessa medaglia, l’Italia è passata dall’essere una democrazia limitata a una democrazia piena, al compimento dello Stato di diritto. Prima c’erano Cosa Nostra e la mafia di Stato, annidata in alcuni gangli importanti delle istituzioni. Insieme a Falcone e agli altri giudici abbiamo reso la mafia illegale, l’abbiamo messa fuorilegge, è finita l’impunità per diversi settori che prima erano ritenuti intoccabili. Dunque Falcone non è morto invano, il suo non è stato un inutile sacrificio. La sua azione è stata infatti decisiva per rendere quindi l’Italia un Paese più democratico di quanto non fosse nei decenni precedenti". Forse è morto solo?

"No. Come scrivo nel mio libro per lui non hanno pianto solo amici e parenti, hanno pianto e piangono in tanti. Sto parlando di quell’Italia dell’Antimafia senza il cui sostegno i magistrati non sarebbero stati in grado di fare ciò che hanno fatto, non ci sarebbe stato il maxiprocesso, né ci sarebbe stata Mani Pulite". La mafia è sparita?

"No, malaffare e corruzione ancora ci sono, ma la mafia oggi non è più un’emergenza nazionale, la sua pretesa di sovranità su questa o quella parte del territorio è stata cancellata, in Sicilia e altrove. E oggi l’Italia è il Paese meno violento dell’Occidente, Palermo è più sicura di Milano".

E la mafia di Stato?

"Direi che è finita per estinzione dei suoi protagonisti, molti non ci sono più, altri sono molto anziani. Ma c’è un passato che non passa, poiché ancora non abbiamo tutta una verità giudiziaria".

Si poteva dare alla mafia il colpo di grazia?

"Sì. Ma è mancata la necessaria determinazione. Non soltanto del governo Berlusconi nato nel 1994, ma anche di quelli tecnici e poi del centrosinistra. E c’è stato un abbassamento degli standard di qualità della classe dirigente, rispetto alla quale il lascito di Falcone e degli altri giudici suona dunque come un rimprovero vivente alla incompetenza e anche alla mediocrità attuali".

Cosa ricorda di più bello nel suo rapporto con Falcone?

"Il piacere di stare insieme, una amicizia profonda e personale". Nella introduzione al libro, Arlacchi sottolinea: "Le stragi di mafia ci hanno certo privato della presenza fisica di due grandi italiani e delle donne e degli uomini che li accompagnavano, ma oggi esse non vivono dentro di noi soltanto come accidenti maledetti della storia. Capaci e via D’Amelio non sono state le semplici disfatte della giustizia e della ragione, ma il prezzo del passaggio da un’epoca a un’altra per la nostra storia nazionale".