Coronavirus, l’infermiere in trincea si laurea in Medicina: “È come una guerra’’

Il ginesino Alessio Salvucci ha discusso la tesi in streaming da casa. Lavora in Rianimazione a Camerino: ferito dalla mascherina

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San Ginesio (Macerata), 27 marzo 2020 - Laurea online in Medicina e chirurgia, e poi subito in corsia all’ospedale Covid di Camerino, dove lavora come infermiere da 11 anni nel reparto di rianimazione. Solo che negli ultimi giorni è stato spostato d’ufficio al pronto soccorso per lesioni al naso dovute alla mascherina e alla maschera a tenuta stagna per gli occhiali. E deve aspettare che le ferite guariscano per tornare, con lo scafandro, in rianimazione. È la storia del 33enne di San Ginesio Alessio Salvucci, che l’altroieri ha conseguito la laurea magistrale con la tesi "Impatto degli eventi sismici sull’incidenza di eventi cardiovascolari". Ha due figli, Riccardo di 13 anni e Elia che ne compirà 7 domani. Salvucci fa parte del piccolo esercito di neolaureati in medicina dell’Università Politecnica delle Marche che martedì ha indossato la corona di alloro, in casa. Ma ieri era già di nuovo sul fronte camerte. Salvucci, com’è la situazione? "È un’emergenza continua. Cerchiamo di dare il massimo, scafandrati e di corsa. Dispiace perché, a livello di empatia, riusciamo a stare vicino ai pazienti fino a un certo punto; i ritmi sono molto elevati. Da poco sono arrivati i tablet che permettono a chi è ricoverato di collegarsi con i familiari, ma è ovvio che manca il supporto che può darti il calore di un abbraccio. I turni sono massacranti, è davvero come stare in guerra. Negli ultimi giorni sono stato allontanato forzatamente dal reparto di rianimazione: devo aspettare che guariscano le lesioni al naso e nel frattempo sono stato spostato al pronto soccorso. Mi sento un po’ in colpa con i colleghi; ho richiesto una visiera idonea, per gli occhiali da vista e la conformità del mio naso, perché voglio tornare presto da loro e dai pazienti. Non ho abbandonato il reparto". Come padre di famiglia, è preoccupato? "Dovevo fare una scelta: o stare in isolamento fino alla fine di tutto, oppure usare tutti i dispositivi di protezione in maniera lucida, con la consapevolezza di non poter fare errori. Uso tutte le accortezze. Non sono più andato dai nonni, e con i miei genitori, abitando nella stessa casa, i contatti sono ridotti al minimo. Evito tutto quello che si può evitare. Ma la mia famiglia mi dà forza anche nel lavoro, mi ricarica". Da infermiere a dottore. Quanto ama il suo lavoro? "Tanto. La passione è il motore trainante di tutto. Ho sentito il bisogno di crescere, approfondire le conoscenze. Devo ringraziare la mia famiglia, i colleghi, la caposala, i direttori delle unità operative. Il loro supporto è stato fondamentale". Le è capitato di avere come paziente una persona che già conosceva? "Il nonno di una ragazza che ha fatto l’università con me. È stato come il segno tangibile che si tratta di una malattia che, nel concreto, può colpire tutti".