La mia Macerata svuotata e silenziosa. È così vicina al sogno da non sembrare vera

Coronavirus, la scrittrice Lucia Tancredi: l’orologio dei Pupi fa la ronda per nessuno, la piazza ora è un deserto d’anima Cammino guardinga come un gatto che rasenta i muri

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Macerata, 28 marzo 2020 - Il finale dei Malavoglia mi fa piangere, così come era successo alla mia insegnante di ginnasio. Lei lo aveva detto: da adulti capirete. Il giovane ‘Ntoni ritorna in paese dopo essere uscito di galera, a sera tardi, la sporta sotto il braccio, coperto di polvere con la barba lunga, tanto che suo fratello aprendo la porta non lo riconosce. Persino il cane gli abbaia, che non l’ha mai visto. È quello che dico sempre ai miei studenti: da adulti capirete; non quest’anno, che in pochi giorni hanno dovuto scavallare anni di crescenza. Verga fa dire per due volte al suo personaggio ora che so ogni cosa, perché è giunto alla verità. ‘Ntoni ora sa quanto bene ci sia stato nella piccola vita respirata e condivisa della famiglia nella casa del nespolo, proprio quando deve farsi straniero e andarsene, guardando il mare color amaranto, che non ha paese nemmeno lui. I miei studenti, nello straniamento di questa quarantena, hanno capito quanto ci si possa salvare nel reciproco riconoscimento di un bene: essere liberi di incontrarsi, passeggiare, ritornare a scuola. Spossessati di un bene, hanno compreso come nulla sia dato per acquisito e scontato. Anche io questa sera sono ‘Ntoni Malavoglia; devo portare le provviste a mio figlio, da piazza Pizzarello a Galleria del Commercio. Sono una straniera, una clandestina sans papier nella mia città, cammino guardinga come un gatto che rasenta i muri. Ci sono nubi intere cariche di neve, anche se è primavera. I Giardini Diaz sembrano un bosco stranito, una specie di foresta shakesperiana di Birman, i cui alberi cominceranno ad avanzare minacciosi. Evito gli ascensori, sconsigliati come tutte le cripte urbane, i sottopassi, alla stregua di covate verminose. Prendo per Porta Montana. La cupola di San Giovanni è un montirozzo appalcato in un’isola di nebbia. Davanti alla Biblioteca Mozzi-Borgetti rifletto che, tra volumi e scartafacci, c’è tutta la storia di Macerata: le annate terribili 1811-1812, quando i morti sopravanzavano i vivi, il tifo petecchiale, il colera asiatico che nel 1850 faceva gettare i morti nelle fosse, la febbre spagnola, le invasioni di stranieri, il malgoverno pontificio, le guerre mondiali. Eppure nulla è simile a quello che sta succedendo: una città annottata, svuotata, tanto vicina al sogno da non sembrare vera. Forse per via del silenzio, che non è quello musicale ma pare d’un altro mondo. Le cupole a cipolla di San Filippo hanno la pazienza dei monumenti, la saggezza di saper stare durabilmente. Ma il pensiero corre, nell’infilata di corso della Repubblica, ad un tempo divenuto come lontano e irrecuperabile. Quando si sarebbe sbirciato nella vetrina di Milena, sostato nella libreria con Simona e Chiara, preso un tè comodo da Elvira, scialato ai tavolini della piazza che ora è un deserto d’anima. L’orologio dei pupi fa la ronda per nessuno, il teatro è serrato. Persino Palazzo Buonaccorsi, che è bellissimo, non figura e fa un’inutile pompa. Il Duomo, col corpicino della Madonna della Misericordia, già sconocchiato dal terremoto, è un’enorme casa sinistrata. Mai come in questo momento ho nostalgia di Macerata, mai come ora la sento mia. E mi arriva, come per ‘Ntoni, la verità: che senza relazione tutto è un vivere perso e si muore, a cominciare dalle città, orfane pure loro, spaesate e stranite. Non esiste una realtà virtuale che possa sostituirsi alla città abitata vociata passeggiata. Scendo dalla Cocolla allo slargo di piazza Mazzini, lo Sferisterio è illuminato a tricolore. Duecento anni fa, in anni difficilissimi di scontri e morbi esiziali, quasi cento consorti decidevano di ripartire dalla bellezza, dalla condivisione di un bene comune. Affidavano il progetto dello Sferisterio ad Ireneo Aleandri, il quale lo interrava nel cuore della città, accordandosi al giro delle mura cinquecentesche di Antonio e Andrea da Como. Aleandri aveva solo ventotto anni, s’era fatto qualche giorno di prigione perché troppo simpatizzante con le idee liberali, suo fratello era carbonaro. Credeva che non ci fosse bellezza senza libertà. Cento anni dopo, nel luglio del 1921, lo Sferisterio veniva rilanciato alla grande con il maestoso allestimento di Aida, per un pubblico di diecimila spettatori. Si fecero entrare, in file ordinate, ancora prima dei divi e delle autorità, i reduci di guerra, le orfanelle dell’Asilo della Pietà, i bambini dell’Asilo dei Poverelli e tutti i vecchietti dell’Ospizio, chi in piedi chi in carrozzella. Quando sarà finita l’emergenza e si festeggerà la rinascita, si dovrà rettificare ogni cosa in termini di civiltà e pietà. Come per l’Aida del ‘21, i primi saranno i reduci, gli orfani, i poverelli e i vecchi, i grandi vecchi, i resistenti e i salvati, quelli che nel danno sapranno insegnarci a trovare il dono.