Covid e guerra hanno cambiato la narrazione

Pierfrancesco

Giannangeli

Raccontare il mondo significa oggi raccontare una complessità che forse, dalla modernità in avanti, non è mai stata così stratificata. Il sommarsi di eventi globali che hanno cambiato la natura dello stare al mondo, dell’essere nelle cose del mondo, negli ultimi due anni è stato un accadimento che ha modificato l’approccio alle cose e, necessariamente, anche la natura della narrazione. Una pandemia prima, cioè qualcosa che da generazioni avevamo conosciuto solo passando un paio d’ore davanti a uno schermo guardando un film del genere catastrofico, e una guerra nel cuore dell’Europa poi, e anche in questo caso stiamo parlando di qualcosa di cui molti di noi hanno avuto contezza soltanto dai libri di storia, hanno cambiato molti aspetti del nostro vivere quotidiano. Da un lato ciò è accaduto inevitabilmente per gli effetti pratici che la sinistra grandezza di questi fenomeni ha provocato, ma d’altro canto si è avvertita una scossa anche negli immaginari che nelle menti di ciascuno - a loro volta capaci di aggregarsi in gruppi nuovi, cercando e trovando nuovi alleati cammin facendo - si sono creati a una velocità piuttosto sostenuta. A fronte di tutto questo appare evidente come anche le comunità di chi i mezzi di informazione li realizza ogni giorno (in realtà le modifiche ai modelli precostituiti certe volte, non infrequenti, sono pure più veloci e mutano nell’arco di una giornata) e di chi ne usufruisce costantemente, si ritrovano intorno alla necessità di un rinnovamento dei codici. Cosa che non necessariamente significa per forza inventare qualcosa di nuovo, perché basterebbe dare una rispolverata a vecchie regole cadute in disuso. E una su tutte sarebbe quella di ascoltare prima di parlare, non sovrapponendo le voci per creare ad arte il conflitto, poiché ciò permetterebbe di elaborare un pensiero solido e "freddo", capace a sua volta di farsi udire nel rispettoso e attento ascolto altrui. Coraggio, forse non è così difficile.