"Dall’Aids al Covid, vent’anni in prima linea Presi il posto di primario destinato a Urbani"

Malattie infettive, Alessandro Chiodera in pensione: un peccato aver smantellato la nostra palazzina. Oggi l’omaggio in ospedale

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di Franco Veroli

Dottor Chiodera, quando è arrivato a Macerata e perché?

"Il 4 settembre 2001. Dopo 20 anni a Brescia come medico ospedaliero "secondario", mi sentivo pronto per fare il primario. Allora non c’erano molte possibilità. Giampiero Carosi, direttore della cattedra di Malattie infettive dell’Università di Brescia, mi disse che c’era un concorso a Macerata. Dopo il pensionamento di Federico Betti, il posto doveva andare per via naturale a Carlo Urbani, che vi lavorava da anni, ma che si era licenziato per andare all‘Oms".

Che ambiente ha trovato?

"Un reparto vivo, 22 posti letto, sempre pieni, con un settore a pressione negativa che ci permetteva di ricoverare anche i pazienti più contagiosi, tubercolosi polmonare compresa. Pochi collaboratori medici, ma validi. Ottima accoglienza dei colleghi e dei vertici aziendali".

Quali erano al tempo le priorità da affrontare?

"La prima fu riorganizzare l’attività ambulatoriale, cosa che feci subito e – credo – con ottimi risultati. Strutturai meglio anche l’assistenza nei nostri tre principali filoni ambulatoriali: Hiv, epatiti virali, tubercolosi".

La palazzina in cui operava era un presidio provinciale, specie nel contrasto all’Aids…

"Certo. Venivo da 20 anni di Aids, che ho visto nascere ed evolvere in un centro (Brescia) che era sempre stato al terzo posto per numero di casi dopo Milano e Roma. La rete per contrastare l’AidsHiv prevedeva un reparto di Malattie infettive per provincia: a Macerata eravamo il presidio a cui facevano capo tutti i casi di Aids conclamato e i soggetti Hiv positivi".

Come è evoluta la situazione dell’Aids?

"Al tempo erano molti di più i pazienti da ricoverare per Aids conclamato. Già nel 2001, però, la terapia farmacologica era molto efficace. Così i ricoveri sono calati e ora i pazienti sono quasi esclusivamente ambulatoriali. Si ricoverano i soggetti che, non sapendo di essere infetti, a un certo punto stanno male. Dai 100 pazienti Hiv positivi del 2001, ora ne abbiamo 220, ma questi non evolvono più in Aids conclamato: invecchiano come la popolazione generale".

Quali sono le malattie infettive più comuni in provincia con cui si è misurato?

"Nei primi anni c’erano più meningiti, virali o batteriche, e meno endocarditi rispetto ad oggi. Poi sono arrivate le infezioni, per lo più ospedaliere, la cui terapia ha dovuto fare i conti con batteri multiresistenti. Finché è stata operativa, la palazzina ci ha permesso di affrontare i pericoli per la salute pubblica che si sono succeduti negli anni: nel 2001 l’Antrace, nel 2003 la Sars, nel 2009 le influenze aviaria e suina, nel 2014 Ebola. Poi nel 2016, c’è stato Zika e, nel 2020, la pandemia del Covid, la più drammatica".

La palazzina, però, è stata chiusa. Come mai?

"È stata chiusa nel 2014 per spostarci con soli sei letti all’interno dell’ospedale. I vertici aziendali di allora decisero che non serviva più un reparto di isolamento e che si potevano utilizzare diversamente spazi e personale infermieristico".

Poi, però, è arrivato il Covid…

"Infatti. Chi aveva detto che le Malattie infettive contagiose erano estinte ha dovuto ricredersi. E velocemente. La palazzina è stata riaperta nella primavera del 2020, poi chiusa, poi riaperta ad ottobre 2020 fino a giugno 2021, poi riaperta per 10 giorni in agosto 2021. Poi ha ospitato di nuovo il nostro ambulatorio fino a febbraio 2022. A marzo, sono cominciati i lavori per trasformarla in altro. Un vero peccato a mio parere".

In quali luoghi e ruoli ha combattuto la guerra contro il Covid?

"A febbraio 2020 io, e altri del mio reparto, giravamo la provincia a fare tamponi ai soggetti sospetti, quando ancora si inseguivano i contatti con i cinesi e chi tornava dalla zona rossa di Codogno. Dal 9 marzo siamo stati spostati all’ospedale di Camerino, divenuto tutto Covid, dove ho cercato di impostare la terapia dei pazienti Covid e di coordinare la loro gestione in tutta la provincia, dopo che altri reparti Covid erano stati aperti a Civitanova e Macerata. Ho coordinato il protocollo nazionale per l’uso del Tocilizumab, un antinfiammatorio utile nelle forme più gravi. Nella brutta ondata tra ottobre 2020 e giugno 2021 dirigevo i due piani della palazzina e gestivo l’uso del Remdesivir. Da aprile 2021, e soprattutto da agosto, ho gestito la somministrazione degli anticorpi monoclonali a Macerata".

Quale il momento più difficile che ha vissuto?

"Sul piano professionale, le prime settimane del Covid nel 2020, quando si procedeva a tentoni in un clima di spavento costellato da tanti morti e nessuno sapeva come sarebbe finita. Sul piano personale quando, nel 2017, a seguito del declassamento del reparto sono stato "degradato" da direttore di struttura complessa (ruolo che avevo ottenuto con regolare concorso) a dirigente di struttura semplice dipartimentale".

Quale quello più bello?

"Sarà retorica, ma mi viene spontaneo dire che sono state tutte quelle volte che ho fatto diagnosi con il nostro microscopio di reparto: ho sempre pensato che il fascino di essere infettivologo sta nel sapere che esiste un "nemico", cercarlo e smascherarlo".

Si è medici per sempre. Continuerà ad esercitare anche dopo la pensione?

"Resterò iscritto all’Ordine dei medici. Dopo 40 anni di vita dedicata agli ospedali, senz’altro mi dedicherò di più alla famiglia, ma non ho programmi".