Il lavoro si conta sulle ore o sulla qualità?

Pierfrancesco

Giannangeli

L’impressione è che si tratti ancora una volta di un’occasione persa per una seria e costruttiva riflessione sul tempo del lavoro nel nostro Paese. La notizia che il gruppo bancario Intesa Sanpaolo ha proposto ai propri dipendenti una settimana lavorativa di quattro giorni a nove ore quotidiane, oltre a essere sparita troppo velocemente, ha aperto un frettoloso dibattito al cui interno il tema cruciale è stato soltanto sfiorato. Infatti si è parlato di diversi aspetti del problema, lasciando a margine la questione fondamentale: il lavoro si conta sulle ore o sulla qualità, sui risultati? Pare essere questo, più di altri discorsi, il nodo centrale di un pensiero che dapprima ha cavalcato l’onda lunga cominciata nei giorni del Covid con lo smart working e poi si è sfilacciato con il ritorno alla normalità. In attesa di sapere cosa ne pensa della proposta di Intesa Sanpaolo il tessuto produttivo del nostro territorio - tra il Maceratese e le Marche ci sono insediamenti non banali, anche a livello internazionale - varrebbe la pena di riportare al centro il concetto di qualità, e non di quantità del lavoro. Certo che, se si prendesse seriamente in esame questo punto (più seriamente di quanto è stato fatto finora, lambendo soltanto l’argomento), ciò imporrebbe una rivoluzione dei comportamenti e un nuovo approccio alla materia per cui viene da chiedersi se siamo effettivamente pronti, oppure rimane più comodo appoggiarsi a una tranquillizzante geronto-burocrazia. Valutare effettivamente il lavoro sui risultati e non sul tempo sarebbe una insurrezione del pensiero, però ci vuole una grande dose di coraggio, perché significa mettersi in discussione, cosa alla quale non tutti sono abituati. Eppure il momento sarebbe quello giusto, con una crisi energetica - una nuova crisi dopo il Covid, figlia della guerra, senza tempo in mezzo per riprendersi - che sta travolgendo un po’ tutti. Ma la crisi si affronta anche con idee nuove e anticonformiste.