"Io positiva, comincio a sentirmi prigioniera"

La cronista del Carlino alle prese con il Covid: dal primo test nel container dell’ospedale alla prolungata attesa per il secondo tampone

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di Paola Olmi

Tra gli estremi della paranoia e del negazionismo descrivo la mia esperienza di positiva, asintomatica, al Coronavirus. Qualche tempo fa, visto che avrei accompagnato mia madre a un piccolo intervento di routine, penso di fare un tampone naso faringeo Sars-Cov-2 per stare tranquilla e per tutelare lei. Mi sento molto stanca, mi fanno male le ossa e le articolazioni, dolori con cui convivo da anni e a cui non faccio molto caso. Il lunedì vado a fare il tampone in ospedale, privatamente. Siamo una ventina di persone davanti ai container sul parcheggio e, fra auto che passano e gente confusa di ogni età, arriva il mio turno. Mi avevano detto che il tampone dava noia al naso e alla gola. Poteva andare peggio. Rientro a casa e non so se per il freddo preso o per l’ansia, inizio a sentirmi come se avessi la testa dentro una boccia di vetro. "Un pesce rosso deve sentirsi così", penso, gran brutta sensazione e, soprattutto, nuova. Ogni tanto accedo con le credenziali datemi dal Cup, al sito Sanità Marche, il risultato non è ancora disponibile. Vado a dormire ma non dormo perché mi monta un gran mal di testa, vengo poi a sapere che può essere stato causato dal tampone. Mi consolo perché sono asintomatica: non ho febbre, respiro benissimo e non ho tosse. La mattina seguente consulto nuovamente il sito e leggo che sono positiva. E adesso? Telefono a parenti, amici e colleghi. Contatto il mio medico di base che, dopo aver verificato che le condizioni di salute non destano preoccupazione, mi detta i codici malattia e mi anticipa che "ci vuole tanta pazienza". Nel giro di poco tempo vengo contattata dall’Ufficio di Igiene, nei giorni successivi imparo a memoria tutti i numeri di telefono dell’ospedale. Mi chiamano per sapere se sono sintomatica o meno, con chi vivo, per dirmi che dovrò rimanere in isolamento e, soprattutto, che dopo 10 giorni farò il "tampone di guarigione". Gran bel nome ottimista, penso. Nel frattempo mi alterno fra letto e telegiornali, fra timori e nuove telefonate. "Salve è la Cosmari, le consegneremo dei sacchi, non può fare più la differenziata, deve mettere i rifiuti in due sacchi gialli, uno dentro l’altro, poi il tutto in un sacco nero che le forniremo; passeremo il martedì e il venerdì". Per la prima volta non avrò i dubbi da conferimento errato. Mia madre mi telefona per sapere se sono stazionaria, se sono peggiorata e soprattutto per sapere chi mi ha contagiato. Il nuovo giallo. Mi ritengo una persona molto fortunata perché sto sostanzialmente bene. Aggiungerò che sono stata positiva sul mio curriculum vitae. Peggio che vada il 21esimo giorno sarà la mia tana libera tutti e vedrò il sole. Spero di star meglio prima, ma devono chiamarmi per fare questo benedetto tampone! Provo a telefonare ai vari numeri ma nessuno risponde. Metto il telefonino in tasca e con il volume al massimo fra i pochi metri quadri in cui sono isolata. Magari mi chiamano e non sento perché mi sono appisolata. Comunico con i miei figli tramite Whatsapp. L’ufficio di Igiene non mi chiama mai. Si saranno dimenticati di me? Scopro che molti sono in attesa di sapere: il risultato del primo tampone, quando possono tornare a lavorare, quando verranno contattati per il secondo tampone, come comportarsi con i parenti, con i conviventi, con gli amici. Non c’è una risposta uguale all’altra. Caos totale a cui si aggiungono nuovi Dpcm e furbi del Covid. Chiamo nuovamente il mio medico che inizia a perdere la pazienza: "Scusi, ma avrebbero dovuto convocarmi per il tampone due giorni fa, che posso fare?". "La situazione è fuori controllo – dice lui – non riescono a gestire e a tracciare i contatti". Passano le ore e inizio a sentirmi prigioniera. Dopo una serie di email, contatti ufficiali e ufficiosi riesco a capire che il mio nome è sulle liste in una data di ben sei giorni di ritardo dal decimo giorno in cui avrei dovuto fare il tampone. Penso alle soluzioni da attuare: sporgere denuncia per sequestro di persona, chiedere al rettore se fanno slittare la tesi di laurea di mia nipote a cui non potrò partecipare, ingaggiare un investigatore privato per conoscere chi mi ha contagiato e fargliela pagare, imparare una volta per tutte a fare il macramè, presentarmi nuovamente a mio marito e chiedergli di sposarmi visto che quando ci rivedremo mi considererà una sconosciuta, ricordare ai miei figli che se sono fortunati a non avermi alle calcagna in questo periodo poi la dovranno scontare. Sarà necessario staccare lo scotch dagli arcobaleni sorridenti messi a primavera dove la paura e le incognite erano maggiori, ma proprio per questo la speranza e il buon senso godevano di ottima salute.