di Chiara Gabrielli L’ultimo bacio alla moglie venerdì mattina, alla stazione di San Severino, in attesa del treno per andare al lavoro. Tutto come sempre. Poche ore dopo, Alika Ogorchukwu, 39 anni, giaceva morto sul marciapiede del corso di Civitanova, massacrato da Filippo Ferlazzo. "Prendi questa brioche, l’ultima cosa che ci siamo detti. Non è possibile morire così, non si può andare a lavorare e non tornare mai più – grida Charity, sdraiata a terra, senza forze, accanto a lei il figlioletto di otto anni –. Voglio guardare l’omicida negli occhi. Perché mi ha portato via mio marito? Perché è dovuto capitare a noi? Cosa dico ora a mio figlio?" È inconsolabile la vedova, Charity: piena di dolore, e di rabbia. "L’hanno ammazzato perché è nero. Altrimenti, tanta cattiveria non si spiega. Non c’è stato nessuno che è intervenuto per salvarlo. Nessuno. L’hanno lasciato morire. Non riesco a capire come mai non c’è stata una sola persona che si sia mossa". Circondata da tanti connazionali, scesi in piazza per protesta, il suo dolore diventa il centro di tutto, ieri: i civitanovesi si fermano, la abbracciano, le danno una parola di conforto. Tanti si siedono per terra con lei e la rassicurano: smetti di piangere, devi chiedere giustizia. Non sei da sola, siamo tutti con te. Non ti lasceremo mai". Altri ancora si fermano e le sussurrano: "Ci vergogniamo di essere civitanovesi, di essere parte di un’umanità che resta immobile se qualcuno viene ucciso". "A un certo punto – ricorda Charity –, venerdì pomeriggio, mi sono venuti a chiamare a casa. Mi dicono: ‘Corri, dobbiamo andare a Civitanova’, mi dicono, uno dopo l’altro. Non capivo nulla, ero terrorizzata. Arrivata in corso Umberto, l’ho visto a terra. Non ci potevo credere. Non è possibile morire così. Voglio vedere l’uomo che l’ha ammazzato – incalza, stesa per terra –. Io e lui stavamo insieme da tanto tempo, non sopporto di stare senza di lui. Andrò fino in fondo e farò quello che devo, mio marito deve avere giustizia. La sua è una morte senza senso".