Delitto Moro e misteri mai svelati. "Quei due uomini erano in via Fani"

Un ex partigiano che vive a Tolentino, l’altro ha attività in provincia

Una panoramica dall'alto scattata il 16 marzo 1978 quando venne rapito Aldo Moro

Una panoramica dall'alto scattata il 16 marzo 1978 quando venne rapito Aldo Moro

Macerata, 2 agosto 2016 - A volte ritornano. Nelle carte (alcune desecretate di recente) dell’ultima commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro spuntano i nomi di due persone che gravitano nella provincia di Macerata. Il primo è Bruno Barbaro, friulano di Maniago (Pordenone) classe 1928 ma da oltre dieci anni residente a Tolentino, un passato da partigiano (è membro dell’Anpi di Tolentino), vedovo di Licia Pastore Stocchi; il secondo è un imprenditore con interessi anche in provincia (del quale omettiamo le generalità, perché mai formalmente indagato). Entrambi sono stati sentiti dalla polizia per conto della commissione di inchiesta e al 10 dicembre 2015, secondo la relazione della commissione alle Camere, «a carico del Barbaro è stato aperto ed è tuttora pendente un procedimento presso la Procura generale di Roma». Barbaro è meglio noto alle cronache del caso Moro come «l’uomo col cappotto di cammello» descritto da alcuni testimoni. È tra i primi a intervenire in via Fani subito dopo l’agguato e sulla sua presenza sono stati avanzati negli anni dubbi e sospetti, sempre però smentiti dall’interessato.

«La mattina del 16 marzo 1978 sono uscito da casa mia, che all’epoca di trovava in via Madesimo 40 – ha dichiarato Barbaro nell’interrogatorio-audizione del 5 marzo 2015 (anche questo negli atti della commissione d’inchiesta) negli uffici della Digos della questura di Macerata, davanti al magistrato Massimiliano Siddi –. Mi dovevo recare in via Fani in quanto, sempre all’epoca, al civico 109 (scala B, interno 11, ndr) si trovavano la sede e gli uffici della società Impresandtex srl, della quale ero amministratore. Mentre mi trovavo ancora in via Stresa (...), ho sentito degli spari che grazie alla mia esperienza bellica ho subito riconosciuto essere spari di mitra. Ho proseguito il mio cammino verso via Fani, credo a passo lento data la paura che la situazione mi incuteva (...). Giunto all’incrocio con via Fani, ho subito visto una scena che si presentava in questo modo. Vi era una macchina di colore chiaro davanti ad un’altra macchina di colore scuro e, dietro quest’ultima, un’altra macchina chiara. All’interno della prima macchina non c’era nessuno, all’interno di quella scura mi sembra di ricordare che ci fosse una sola persona seduta sul sedile di guida riversa sul volante che mi appariva morta, in quanto vedevo del sangue colarle dalla testa; nell’ultima macchina, invece, c’erano sicuramente due persone sedute davanti. Infine ho visto il corpo di una persona che mi sembrava deceduta posto perpendicolarmente all’ultima macchina. Credo sia stato questo punto che, per pietà umana, ho coperto il corpo che si trovava disteso per terra (quello dell’agente Iozzino, ndr) con un giornale aperto che ho trovato nell’ultima autovettura».

Barbaro racconta poi di avere cercato di soccorrere un altro agente della scorta, finché non è stato allontanato da un uomo con in mano una paletta della polizia sceso da un’Alfa vecchio tipo giunta a grande velocità. Nei giorni successivi Barbaro rilascia un’intervista a due giornalisti del settimanale «Epoca», poi riappare solo quindici anni dopo, nel 1993, quando contatta la redazione del programma «Il rosso e il nero», cui rilascia un’intervista (al giornalista David Sassoli) dopo essersi riconosciuto nella persona col cappotto color cammello descritta dal teste Alessandro Marini nella puntata del 21 ottobre 1993. In più di una circostanza la figura di Barbaro è stata accostata ai servizi segreti in ragione della «sua parentela con l’ufficiale del Sid Ferdinando Pastore Stocchi (fratello della moglie, ndr), che dirigeva la base di Capo Marragiu, sede di addestramento degli appartenenti a Gladio e a diversi corpi speciali». Circostanza smentita dall’interessato, che ha sempre negato di avere avuto rapporti col cognato «per una differente visione della vita».

Secondo la relazione della commissione di inchiesta, «per ciò che riguarda eventuali collegamenti del signor Barbaro e della sua società con servizi di intelligence, gli accertamenti effettuati dal servizio centrale antiterrorismo non hanno fornito alcun riscontro e sono stati decisamente smentiti dall’interessato». E l’imprenditore cosa c’entra con quanto accaduto in via Fani? Lo spiega la dirigente della polizia Laura Tintisona. «Approfonditi accertamenti sono stati effettuati sulle autovetture che quella mattina erano parcheggiate in via Mario Fani». Tra queste, «sul lato destro della strada a ridosso dell’incrocio con via Stresa, all’altezza del punto dove è stata bloccata la Fiat 130 a bordo della quale viaggiava l’onorevole Moro», c’era una Austin Morris risultata dal 2 febbraio 1978 di proprietà di una società. L’auto, sequestrata, era stata poi restituita (attinta da alcuni colpi) dopo pochi giorni dalla Digos all’imprenditore, socio dell’impresa, «che aveva riferito di avere la disponibilità di un appartamento in via Fani». Sentito dalla polizia, ha confermato che l’auto era nella sua disponibilità, così come l’appartamento al civico 109, «dove si recava saltuariamente». Ha poi raccontato che aveva parcheggiato l’auto in quel punto la sera precedente, mentre era con la fidanzata, e la mattina erano stati svegliati da colpi di arma da fuoco.