Pamela Mastropietro, processo a Oseghale: "Non l'ho uccisa io". Duello tra consulenti

Venti minuti di dichiarazioni spontanee per il nigeriano imputato dell'omicidio: "E' morta in casa mia mentre ero fuori". La madre della 18enne esce dall'aula

Pamela Mastropietro, la madre al processo (foto Calavita)

Pamela Mastropietro, la madre al processo (foto Calavita)

Macerata, 3 aprile 2019 - E' il giorno della difesa di Innocent Oseghale al processo per l'omicidio della 18enne romana Pamela Mastropietro. Oltre venti minuti di dichiarazioni spontanee per l'imputato. Venti minuti in cui il pusher trentenne, in felpa blu e rossa e scarpe nere sportive, racconta la sua verità davanti alla corte d'assise. Dopo aver ascoltato le prime parole, in inglese, tradotte da una interprete, Alessandra Verni, la madre di Pamela, è uscita dall'aula mentre il padre Stefano Mastropietro è rimasto ad ascoltare fino alla fine.

"Voglio pagare per quello che ho fatto - ha detto l'imputato - ma non per quello che non ho commesso". Oseghale ha raccontato di essere stato avvicinato da Pamela ai giardini Diaz la mattina del 30 gennaio 2018 e che lei lo avrebbe implorato di procurarle una dose di eroina, ceduta poi dal suo amico Desmond Lucky. Arrivati nell'abitazione di via Spalato, ha affermato, la 18enne si sarebbe iniettata eroina, sentendosi poi male in camera da letto e cadendo pesantemente a terra. In un primo momento, Pamela si sarebbe ripresa grazie a un po' d'acqua. Visto che la ragazza sembrava stare meglio, sempre secondo la versione dell'imputato lui sarebbe uscito per consegnare marijuana a un amico che lo aveva contattato. Al ritorno a casa lei non respirava più. 

In apertura dell'udienza la professoressa Paola Melai ha spiegato che non è possibile escludere che la ragazza sia morte di overdose. I tessuti erano stati trattati con la candeggina, e questo potrebbe alterare i risultati delle analisi. Inoltre la ragazza stava assumendo altri farmaci che potrebbero aver potenziato l'effetto dell'eroina. Infine, Pamela era in comunità e dunque non era più assuefatta alla sostanza. 

Con lei gli avvocati difensori Umberto Gramenzi e Simone Matraxia hanno chiamato il medico legale Mauro Bacci, dell'università di Perugia come la professoressa Melai, che ha parlato delle coltellate ricevute al fegato dalla ragazza. In aula però ci sono anche i consulenti della procura e della parte civile, che hanno escluso la morte per overdose.

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Guerra tra consulenti

Confronto serrato e molto tecnico in aula, con proiezioni di foto di reperti autoptici, tra i consulenti medico legali e tossicologi delle parti. Faccia a faccia tra gli esperti, con tanto di banchi posizionati l'uno di fonte all'altro. Di fronte, anche, due tesi contrapposte: Procura di Macerata e parte civile (i parenti di Pamela) sostengono che la ragazza non morì per overdose, ma a causa di due coltellate al fegato; secondo la difesa, invece, Pamela sarebbe stata stata stroncata da un'overdose e solo dopo fatta a pezzi dall'imputato nel suo appartamento in via Spalato.

Di fronte, prima i consulenti di difesa Paola Melai (tossicologa) e Mauro Bacci (medico legale) 'contrappostì a quelli di accusa Rino Froldi (tossicologo) e parte civile, Carmelo Furnari (tossicologo). Il secondo round, sulle ferite inferte a Pamela, tra il medico legale Mariano Cingolani (Procura) e Bacci. Secondo Melai, non ci sono elementi certi per escludere che la ragazza sia morta per overdose. La consulente ha contestato a tal proposito, in parte, la metodologia utilizzata da Froldi che, a suo avviso, avrebbe dovuto prima esaminare organi e altri liquidi e poi il pochissimo sangue a disposizione in modo mirato per stabilire con certezza la quantità di morfina presente: un'overdose, ha osservato, può esserci anche in presenza di un livello basso di morfina se presenti altre variabili (farmaci, condizioni particolari della persona, modo di assunzione dell'eroina). Froldi ha ribadito la bontà del metodo e soprattutto la conclusione sull'insufficienza di morfina presente per un decesso di droga: percorrendo l'altro sistema, ha argomentato, avrebbe rischiato di non avere risultati per la scarsità di sangue a disposizione da esaminare. Altro confronto sulla vitalità o meno delle ferite - due all'altezza del fegato, fatali secondo l'accusa - inferte su Pamela. Bacci non ha rilevato elementi certi per dire che furono procurate mentre la giovane era ancora in vita: ciò in base all'assenza di necessari marcatori e per il fatto che i segni di emorragia sarebbero 'stravasi' post mortem e non infiltrazioni mentre Pamela era in vita. Una ferita, però, ha detto l'esperto, potrebbe essere in parte compatibile con la vitalità del corpo anche se i marker sarebbero insufficienti. Diversa la valutazione di Cingolani, che invece ha riscontrato tali marcatori e infiltrazioni, ritenendo vitali le due ferite. Secondo la difesa, sarebbe necessaria una perizia per rivalutare complessivamente i 'vetrini' degli esami svolti dopo l'autopsia per avere più elementi di valutazione su questo versante.

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Gli avvocati Matraxia e Gramenzi hanno chiesto una perizia, nuovi esami istologici sulle ferite riscontrate sulla 18enne all'altezza del fegato, per chiarire se furono inferte quando era ancora viva. Alla richiesta si è associato il procuratore della Repubblica di Macerata Giovanni Giorgio. I giudici decideranno il 24 aprile se disporla. Nel caso di decisione negativa il processo si discuterà alle udienze dell'8, 15 e 29 maggio.

Acceso confronto in aula anche tra la criminologa Roberta Bruzzone, consulente della famiglia della vittima, e la psicologa Antonella Zecchini, incaricata dalla difesa: secondo Bruzzone, Pamela non era capace di autodeterminarsi a causa di un grave disturbo borderline che la poneva in balia di chiunque incontrasse e che era difficilmente contenibile con farmaci. Di diverso avviso la consulente della difesa, secondo cui invece il disturbo della ragazza non la rendeva incapace e chi la mincontrava non poteva rendersi conto delle sue precarie condizioni psicofisiche.