Siamo una città, ma i problemi non spariscono

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Paola

Pagnanelli

Finalmente Macerata può definirsi "città". "Perché, prima cos’era?" potrebbe chiedersi l’ingenuo lettore. Era un comune, un capoluogo di provincia, a vederla da un altro punto di vista era anche un participio passato femminile, ma una città no. Era città, dal 2020, Civitanova e da prima ancora altri comuni della provincia, che via via avevano chiesto alla presidenza della repubblica di avere questo titolo. Macerata invece no. E ora sì. Nella sostanza, non cambia assolutamente nulla: pregi e difetti sono quelli che avevamo prima. Questo può suonare antipatico ma va detto, a margine dei toni trionfalistici usati per questa nuova definizione. Sono però cambiati lo stemma araldico e il gonfalone, e queste sarebbero indubbie soddisfazioni se vivessimo all’interno della serie televisiva "Downton Abbey": ce ne potremmo vantare con la servitù. Ma purtroppo noi non abbiamo la servitù, viviamo in un posto che chiamavamo città anche prima, e piuttosto ci rallegrano i servizi che funzionano, o la manutenzione di strade, marciapiedi e giardini, e avremmo toni trionfalistici se potessimo risparmiare qualcosa con la Tari, per esempio. Cose pratiche insomma, terra terra, ma capaci di agevolare le nostre vite complicate. Però certo, anche le parole sono importanti. Però allora tutte, anche e soprattutto quelle delle istituzioni e nelle sedi istituzionali: possibile allora che gli abitanti di un posto che si può definire Città con la maiuscola siano, secondo quanto detto da un assessore in consiglio comunale, "psicologicamente labili" se vanno al cimitero?