Pierfrancesco
Giannangeli
Con la fine dell’emergenza pandemica (ma è davvero finita?) tornano di moda le riflessioni sullo smart working, cioè quella pratica che doveva dare una svolta al tempo del lavoro, migliorandolo. In realtà alle nostre latitudini una vera e propria esperienza di smart working non c’è mai stata, poiché si è partiti in corsa nella fase più acuta del Covid con qualcosa di più somigliante al telelavoro e lì ci si è fermati. Alla faccia delle roboanti dichiarazioni su quanto lo smart working avesse potuto migliorare la qualità della vita e, quindi, del lavoro. È chiaro che non ovunque si può lavorare in smart, ci sono delle professioni che non lo consentono, perché la condivisione dei saperi in presenza è fondamentale. Ma sono, appunto, delle eccezioni, perché si può serenamente affermare che ce ne sono tante altre che, grazie allo smart working, possono offrire – anzi, garantire – una produttività migliore. Peccato che ormai la discussione sia puramente accademica, perché di chiacchiere sul tema ne sono state fatte anche troppe, mentre di vere svolte non se ne vede traccia, con buona pace di tutte le sane intenzioni, come per esempio quelle sull’ambiente che avrebbe tratto giovamento da una riduzione del traffico. È una di quelle cose che fanno sospettare che dalla pandemia non ne usciremo migliori manco per niente. A essere ottimisti, forse un giorno a un vero smart working ci si potrà pure arrivare, ma per adesso siamo in ritardo. Siamo comunque in buona compagnia, perché nei giorni scorsi sul tema del lavoro "ibrido" – cioè in presenza e in smart – si è occupato l’autorevole settimanale britannico The Economist, che ha esaminato le prospettive sul graduale rientro nelle aziende tecnologiche e finanziarie, ponendosi la domanda sul come dovrà essere organizzato questo ibrido. Sono stati evidenziati alcuni problemi, ma su una cosa sono tutti d’accordo: con lo smart si lavora anche di più, ma si limitano le riunioni inutili. Via, è già qualcosa.