REDAZIONE MACERATA

Strage di Capaci e Brusca. Quel legame con Macerata

Il cellulare usato per azionare l’esplosivo era stato clonato in provincia al costo di 50mila lire. Il responsabile venne processato e condannato.

Il punto in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti della scorta

Il punto in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti della scorta

Le indagini sulla strage di Capaci toccarono anche Macerata. In provincia risultò essere stato clonato, al costo di 50mila lire, il cellulare usato per azionare a distanza l’esplosivo che, il 23 maggio del 1992, uccise Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta. La vicenda, finora rimasta sconosciuta, torna fuori in occasione della liberazione di Giovanni Brusca, il capomafia che azionò quel telecomando e che, secondo alcune voci circolate all’epoca, salì di persona con i guardiaspalle a Macerata per acquistare il telefono.

Dopo l’attentato, in un momento di grandissimo allarme per il potere che la mafia mostrava di avere acquisito, la procura di Palermo avviò le indagini su tutti i fronti per individuare i colpevoli. Nel corso di questi accertamenti, si risalì anche al telefonino che era stato usato come controllo a distanza per il tritolo piazzato sotto all’autostrada. Le indagini portarono così a Macerata, dove pure iniziarono una serie di attività da parte della procura per seguire le tracce di quel telefono. Fu così che si arrivò a un piccolo paese vicino Macerata. Qui lavorava un esperto di cellulari, strumenti ancora poco diffusi nei primi anni Novanta. Grazie anche ad alcune esperienze in Europa, l’uomo faceva anche da consulente per le procure. Ma oltre a questo, sarebbe stato in grado di usare un programma per clonare i cellulari, per rendere non rintracciabili i proprietari delle schede. E proprio questo gli avrebbe chiesto, attraverso alcuni complici in regione, il boss Giovanni Brasca, noto come "scannacristiani".

Tra marzo e aprile del 1993 i carabinieri individuarono una serie di soggetti, attraverso cui fu ricostruita la vicenda, e alcuni di questi dissero anche che Brusca in persona, con la sua scorta, era venuto nel Maceratese per comprare il telefonino, pagandolo 50mila lire. Ma il particolare della salita nelle Marche dalla Sicilia del boss poi non fu confermato nel corso delle indagini.

In un primo momento la vicenda faceva parte della maxi inchiesta sulla strage di Capaci, poi però la procura di Palermo stralciò quella porzione del fascicolo e inviò gli atti a Macerata. Il processo si aprì prima nel tribunale di Osimo, dove altri due soggetti ritenuti coinvolti patteggiarono la pena; poi per competenza fu trasferito a Macerata, dove si chiuse il processo nei confronti del maceratese. L’uomo fu accusato di ricettazione e danneggiamento, per aver usato materiale di provenienza illecita per clonare il cellulare, e per averne danneggiato uno modificandolo. Lui negò sempre tutto, anche alla luce del fatto che nessun programma o congegno illecito era stato trovato nelle perquisizioni. Ma alla fine fu condannato a tre anni di reclusione.