"A Bergamo ho conosciuto la sofferenza"

Luca Carnevali, medico in trasferta all’ospedale da campo di Bergamo: "Ho scelto io di andare nell’epicentro della pandemia"

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di Maria Silvia Cabri

E’ rientrato da poco dall’ospedale da campo di Bergamo il carpigiano Luca Carnevali, 49 anni, medico veterinario impiegato all’Ausl di Reggio Emilia, nonché specialista di apparecchiature biomedicali e Medical Device. Una missione di tre settimane proprio nel fulcro della pandemia, che lo ha segnato profondamente, nonostante avesse già vissuto esperienze di volontariato nel campo medico, da l’Aquila alle Marche dopo il sisma.

Perché ha deciso di andare a Bergamo?

"Fin dall’inizio della pandemia mi sono chiesto cosa potevo fare per aiutare coloro che erano stati meno fortunati di noi. La mente è volata subito alla zona dell’epicentro dell’epidemia; l’immagine dei camion militari con le salme dei morti di quei giorni, in partenza dal cimitero di Bergamo verso vari inceneritori di tutt’Italia, è stata la molla che ha fatto scattare in me la decisione di rendermi disponibile con l’Ospedale da Campo dell’Associazione Nazionale Alpini, realizzato nella Fiera di Bergamo".

Quanto è stato via?

"La missione è durata 3 settimane: a una prima fase in cui mi sono occupato dell’ultimazione della struttura e dell’organizzazione sanitaria per l’apertura dell’ospedale, è susseguita la fase di attivazione di questo Pma coordinato dall’ospedale Papa Giovanni XXIII, che mi ha arruolato tra il suo personale sanitario in zona rossa".

Quali erano le sue funzioni? "Nell’ambito di un’emergenza saltano molti degli schemi con cui siamo abituati a lavorare tutti i giorni. Prima che l’ospedale fosse aperto, ho organizzato la fase di progettazione e realizzazione delle procedure e percorsi ospedalieri per la zona gialla e rossa e coordinato la farmacia interna e l’organizzazione dei servizi di sanificazione. Dopo sono stato coinvolto nell’accettazione dei pazienti al Triage, nella gestione dell’emoteca per le trasfusioni e dei dispositivi per la terapia intensiva di funzionare correttamente, nell’organizzazione del trasporto dei campioni di sangue e tamponi, fino alle dimissioni".

Qual era l’atmosfera?

"Surreale con giornate trascorse velocissime e in lavoro 1618 ore al giorno senza bere o andare in bagno per non consumare i preziosi Dpi che scarseggiavano e non sempre idonei e performanti. C’è stato subito spirito di corpo da parte di tutte le persone impegnate e abbiamo garantito molta vicinanza ai pazienti: uno sguardo, un contatto possono fare molto per coloro che non sono intubati e sedati; ma credo che anche coloro che erano incoscienti in qualche modo sentissero il calore e la presa in cura da parte di tante persone. L’apprezzamento del nostro lavoro e servizio da parte della popolazione bergamasca si è concretizzata in una continua vera e propria processione verso l’ospedale da parte di cittadini, commercianti o aziende che lasciavano alla reception ogni bene di conforto, donandocelo in segno di stima".

Questa esperienza l’ha cambiata?

"Mi ha segnato profondamente, sia per le cose imparate e fatte in Team multidisciplinari, sia per l’intensità delle emozioni e per la gravità del contesto; per le persone che ho conosciuto nella sofferenza e per gli operatori sanitari volontari e non, con cui ci siamo ripromessi di vederci alla fine dell’emergenza, per darci finalmente un abbraccio fisico. Quello che porti a casa dopo queste missioni è molto di più di quanto tu hai donato".