Da Wiligelmo a... Sandrone Così il Duomo parla di noi

E’ uscito per La Nave di Teseo ’Saggi per un’altra storia dell’arte’, con le riflessioni del grande intellettuale Francesco Arcangeli

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di Roberto

Barbolini

In un breve scritto intitolato ’Modena e dintorni’, Antonio Delfini ci ricorda che qui da noi "si sberleffa, si ride, si bastona come nel film scolpito in bassorilievi della facciata del duomo". È un’intuizione bellissima, che anima improvvisamente il gran libro di pietra scolpito da Wiligelmo facendo scorrere davanti ai nostri occhi le immagini come nelle farse del cinema muto. Eppure nessuno era arrivato a collegare la bastonata che Caino rifila ad Abele in uno dei bassorilievi wiligelmici con le legnate che Sandrone impartisce dalla baracca dei burattini, prima che l’idea venisse in mente a uno storico dell’arte geniale come Francesco Arcangeli (1915-’74). "Sandrone è ancora una maschera che viene da Wiligelmo, è la maschera del contadino" osserva infatti in una conferenza del 1972 raccolta dal compianto Piero Del Giudice in ’Saggi per un’altra storia dell’arte-vol.I - da Wiligelmo a Crespi’, antologia degli scritti arcangeliani ora edita dalla Nave di Teseo con una appassionata prefazione di Vittorio Sgarbi, che di Arcangeli si rivendica giustamente allievo emerito. Sandrone, fratello di sangue di Bertoldo, è il classico contadino ’scarpe grosse e cervello fino’. E dentro quelle scarpe ci stanno grossi piedi pesanti, saldamente radicati alla terra come i piedi dei figli di Noè nel quarto e ultimo bassorilievo, che a detta di Arcangeli sembrano "delle enormi pagnotte, degli scarponi, sembrano qualche cosa di talmente pesante che però, badate, la terra emiliana non ha dimenticato". A che altro, se non a una rissa di contadini rimanda poi l’uccisione di Abele? Lo testimonia quella che è "una vera randellata di una pesantezza estrema", una legnata possente che Caino impartisce al fratello come in un regolamento di conti rusticano. Secondo me potrebbe averla inflitta Zebio Còtal, lo scontroso contadino appenninico protagonista dell’omonimo romanzo di Guido Cavani. In ogni caso, una mazzata simile non la troverete mai in uno ieratico mosaico bizantino, ma neppure nelle sculture romaniche di Moissac, così vicine cronologicamemte a quelle di Wiligelmo. Perché, sostiene Arcangeli, le sue sculture parlano in dialetto, quelle di Moissac in un latino aulico che non ha nulla da spartire con il formidabile volgare padano inventato da Wiligelmo.

"Se voi conoscete il dialetto modenese, anche questo dialetto è terribilmente romanico" prosegue il grande critico. "Fa anche ridere, se permettete, è formidabile", dotato di una potenza rustica superiore al bolognese, "che nonostante tutto è un dialetto più coltivato", cresciuto in una città curiale e universitaria. Una città in grado di intimidire, molti secoli dopo, il giovane Francesco Guccini, al quale Bologna apparirà addirittura una Parigi in minore: "Ed io, modenese volgare, a sudarmi un amore, fosse pure ancillare". Dai versi di Guccini traspare un’evidente autoironia, una satira preventiva che è il modo con cui noi modenesi ci difendiamo dai ’tàmpel’ altrui, per evitare di ridurci a macchiette. Perché il riso e lo sberleffo sono a Modena qualcosa di genetico. Un’indispensabile bazzecola che, nata ai tempi della cacciata dall’Eden eternata nel lapidario graphic novel di Wiligelmo, discende per li rami dalla ’Secchia rapita’ del Tassoni come dall’’Amfiparnaso’ musicale di Orazio Vecchi, per arrivare fino alle bastonate di Sandrone. Non è ora che l’Unesco dichiari anche lui patrimonio mondiale dell’umanità?