"La pandemia, un’alluvione generazionale"

Al Teatro Tempio ’Una riga al piano di sopra’. Matilde Vigna: "L’umanità sa sempre rialzarsi"

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di Chiara Mastria

‘Una riga al piano di sopra’ è un monologo sullo sradicamento, la dispersione: è il racconto di una generazione – quella che, come l’autrice Matilde Vigna, è nata alla fine degli anni ’80 – che combatte ogni giorno contro precarietà, disoccupazione, perdita delle proprie radici. Un monologo contemporaneo che, però, parte da lontano: dal dramma dell’alluvione del Polesine nel 1951. Dopo il debutto al Teatro delle Moline di Bologna, Matilde Vigna sarà sul palco del Teatro Tempio di Modena da stasera al 10 aprile per mostrarci la strada che unisce il 1951 all’oggi.

Matilde, come è nata l’idea di ‘Una riga nera al piano di sopra’?

"L’anno scorso, settantesimo anniversario dell’alluvione del Polesine, mio cognato Daniel Fusaro – capo delegazione Fai della provincia di Rovigo – mi ha regalato un libro sulla storia dell’alluvione. In quel frangente io ero al Teatro Bellini di Napoli per il progetto Zona Rossa, iniziato il 20 dicembre 2020, che vedeva 6 artisti reclusi in teatro come protesta per la protratta chiusura degli stessi. Un periodo per riflettere e creare, per poi debuttare il primo giorno di riapertura (in realtà la data di riapertura è stata posticipata talmente tante volte che infine siamo usciti, esausti, con un comunicato stampa il 5 marzo 2021). Fuori imperversava la pandemia che ci ha fatto perdere lavoro, socialità, persone care a cui non abbiamo potuto dare nemmeno l’ultimo commiato. Come se fossero state portate via… dall’acqua. ‘Una riga nera al piano di sopra’ è una riflessione sulla perdita che incrocia due percorsi, uno storico e uno contemporaneo per riflettere sulle differenze tra i due eventi e, al contempo, sull’universalità della tragedia".

Il 1951 e il 2021: dove si incontrano?

"L’alluvione del Polesine avviene nel dopoguerra, in un periodo in cui una zona depressa d’Italia viene sconvolta da una tragedia smisurata. Allo stesso modo la pandemia ci ha colpiti in un momento in cui la disoccupazione giovanile era al 28.9% (dicembre 2019) – un dato come un altro, ma io davvero mi sono sentita come se, perdendo il lavoro, avessi perso tutto. Ma forse la risposta a questa domanda è che l’incontro tra queste date sono io. Io che, nella tragedia del 2021 ritorno alle radici della mia terra in cui non vivo da quando ho finito il liceo. Quindi forse, in questo senso di precarietà generale e generazionale che ci sradica e ci disperde, tornare alle proprie radici e fare pace col proprio passato può essere un modo per affrontare la nostra alluvione generazionale".

È davvero possibile perdere tutto?

"Questa è la grande domanda a cui non so rispondere. Penso che sì, sia possibile perdere tutto, le immagini angosciose della guerra in questi giorni ce lo mettono davanti agli occhi senza pietà. Ma la storia del Polesine, come le tante altre tragedie naturali di questa nostra Italia cosi delicata e maltrattata mi hanno mostrato quanto, nel momento esatto della perdita più totale si ritrovi sempre qualcosa. La nostra ragazza che porta via tutti i suoi oggetti dalla vita precedente trova un tassista gentile che le regala una corsa. E i genitori che di nuovo la accolgono. E una banca che le concede il mutuo… Nel Polesine arrivano aiuti da tutto il mondo. Ci si aiuta. Ci si tende la mano. Perché siamo esseri umani, e questo resta. Resta la nostra capacità di andare avanti, di costruire. La natura umana non è distruzione: quando questo accade, è perché qualcosa si è perso".

Se lei dovesse salvare solo una cosa, cosa sceglierebbe?

"Risposta faceta: il computer per vedere le serie tv. Risposta romantica: le lettere di mia nonna. Risposta seria: nulla. Le cose non sono importanti, sono importanti le persone, e il nostro poterci essere per gli altri".