DORIANO RABOTTI
Cronaca

L’inferno dell’Heysel: "Ero in quella curva dove sono morti in 39. Noi salvi per miracolo"

Franco D’Aniello, fondatore dei Modena City Ramblers, era a Bruxelles il 29 maggio del 1985 per assistere a Liverpool-Juventus: "Un incubo, per anni ho fatto fatica a stare tranquillo anche nei nostri concerti".

Lui in quell’inferno c’era. Sono passati quarant’anni dalla tragedia dell’Heysel, lo stadio di Bruxelles dove il 29 maggio del 1985 ci furono 39 morti e 600 feriti prima di Juventus-Liverpool, finale di Coppa dei Campioni. Franco D’Aniello, padre fondatore dei Modena City Ramblers, era su quei gradoni. E per fortuna può raccontarlo.

D’Aniello, che cosa ricorda di quella trasferta?

"Avevo 23 anni, facevo l’Isef, con me c’era Giancarlo, un amico di Reggiolo e un altro suo amico. Eravamo nel Settore Z, quello della tragedia. Arrivammo allo stadio presto, ci fecero togliere un’asta di bandiera da un metro e mezzo in plastica, mentre gli inglesi portavano dentro pacchi di bottiglie di birra in vetro".

E già si intuiva qualcosa.

"In realtà senza voler sminuire le responsabilità, l’alcol ovviamente scatenò l’aggressività degli inglesi, ma furono decisive le condizioni dello stadio. L’Heysel era fatiscente, i gradoni si sbriciolavano, per uscire dovevi risalire la grandinata e passare attraverso una porticina strettissima. C’erano tutte le premesse per il disastro, purtroppo".

Lei che cosa vide?

"Ero abbastanza vicino agli inglesi, dai quali ci separava una rete di fil di ferro da pollaio. Loro erano molti di più di quanto il loro settore potesse contenere. Non ci stavano, ma neanche i poliziotti avevano il coraggio di intervenire, temevano di scatenare la rissa. Quando è iniziato tutto noi eravamo tranquilli".

Che è successo?

"A un certo punto gli inglesi hanno iniziato a tirare bottiglie e sassi, gli italiani hanno iniziato a spostarsi schiacciandosi. Tra noi e il campo c’era una cancellata bassa di legno, quando gli inglesi hanno divelto la rete è scoppiato il finimondo".

Voi che cosa avete fatto?

"Gli italiani spingevano e si schiacciavano, è dilagato il panico. Io per fortuna avevo la macchina fotografica a tracolla con un obiettivo lungo che ha fatto da spessore, mi premeva la pancia ma ha impedito che mi schiacciassero. Siamo scesi fino al campo, abbiamo calpestato qualcuno, la cancellata alla fine fu abbattuta e ci ritrovammo sul campo. Il mio amico aveva perso le scarpe".

Cosa si vedeva dal campo?

"Sentivamo le urla, ma non riuscivamo a vedere bene. Ci abbiamo messo diversi minuti a ritrovare il terzo amico, stava girovagando in mezzo al campo un po’ confuso, aveva preso una pietra in testa. Siamo scappati verso la tribuna centrale, mentre iniziavano a circolare le voci che ci fossero dei morti. Eravamo vicini al posto dal quale passavano i giocatori per entrare, urlai a Sergio Brio che c’erano stati dei morti e non dovevano giocare. Non sapevano niente".

Era un mondo senza social.

"E senza telefonini. Abbiamo pensato che a casa fossero terrorizzati per noi, allora abbiamo deciso di uscire dallo stadio, erano le otto. Non sapevamo dove andare, mentre veniva allestito un ospedale da campo, arrivavano i poliziotti a cavallo e quelli in tenuta antisommossa".

Come avete avvisato a casa?

"Quando siamo usciti c’era una troupe della Rai, mi hanno intervistato, speravo che fossero in diretta e invece no. Siamo usciti nel grande viale dello stadio, c’erano casette con la gente che guardava fuori. Ci hanno lasciato entrare per telefonare".

Dopo quanto tempo è tornato in uno stadio?

"Diversi anni. Anche agli inizi della storia dei Ramblers, quando ai concerti c’era molta gente non ero tranquillo, c’è voluto tempo. Suonare è stato terapeutico".

Molti contestano Platini e compagni per aver fatto il giro d’onore con la Coppa.

"No, quello no. Chi era lì sa benissimo che giocare la partita è stato l’unico modo per gestire la situazione e avere il tempo per far uscire gli inglesi. Non dovevano esultare il giorno dopo, con la Coppa all’arrivo all’aeroporto. Quello potevano risparmiarselo".