L’inflazione verbale da arginare

Lo story telling dei social spesso nasconde un impoverimento

di Roberto

Barbolini

Ma se ci allontaniamo dalle luci del palcoscenico e dalle placide greggi della transumanza festivaliera, che altro sono giustizia e verità, libertà e sdegno, se non “parole, parole, parole”, con un refrain che risuona dall’Amleto di Shakespeare a una celebre canzone di Mina? Perciò il Comitato direttivo del festival, facendo proprio il memorabile incipit del Vangelo di Giovanni "In principio era il Verbo", ha deciso di dedicare alla Parola la prossima edizione. Scelta benemerita: nell’era dello storytelling planetario l’inflazione verbale sta raggiungendo vertici inusitati; ma il rovescio della medaglia -basta uno sguardo al linguaggio dei leoni da tastiera- è l’impoverimento di una prosa spesso sciatta e sgrammaticata. L’uomo è disceso dalla scimmia; ma viene il dubbio che si stia affrettando a risalirci. Ricordate la canzone di Ligabue? "Ho perso le parole Eppure ce le avevo qua un attimo fa" . Sembra un presagio di quell’euforico Alzheimer collettivo che ci sta cadendo addosso nell’indifferenza generale. L’uomo tecnologico pare lontanissimo dal bonobo; ma nel circo mediatico governato da algoritmi imperscrutabili siamo spinti a trasformarci in pirhãra, popolo amazzonico la cui lingua è di poche lettere, declinata solo al presente e priva di subordinate. Al loro posto, faccine sorridenti o corrucciate, manine plaudenti, pollici su o giù. "Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe" poetava Montale. Chissà cosa direbbe adesso.