"Un’indagine sul palco alla scoperta degli haters"

Kepler-452 porta al teatro Tempio da martedì al 27 marzo ’Gli altri’. Borghesi, uno dei registi: "La conclusione? Il male è piuttosto banale"

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di Chiara Mastria

Quando diciamo ’altri’ siamo abituati a pensare alle cosiddette minoranze: gli stranieri, i senzatetto, le persone Lgbtq+, per citare alcune categorie. Ma ci sono altri... altri: sono quelli che la compagnia Kepler-452 chiama ’altri tradizionali’, gli ’haters’. "Sono quelli che tendiamo ad additare come mostri per le cose irripetibili che scrivono sui social. Che, tra foto di vacanze e di animali, alimentano roghi virtuali", ci spiega Nicola Borghesi. Lo spettacolo ‘Gli altri - indagine sui nuovissimi mostri’ che sarà al teatro Tempio di Modena da martedì 15 al 27 marzo, con la regia di Riccardo Tabilio e di Borghesi, che sarà anche in scena – parla di questo: del tentativo di scoprire chi si nasconde dietro le tastiere avvelenate che riempiono i social, di aprire un dialogo e di scongiurare lo sviluppo di un’altra categoria ancora, quella che odia ‘gli altri tradizionali’.

Borghesi, come mai la scelta di indagare questi ‘altri tradizionali’, come li definite voi?

"Noi, da sempre, ci occupiamo di raccontare tutto ciò che ha a che vedere con l’emarginazione, l’immigrazione, le periferie: quel pezzo di mondo che si cerca sempre di integrare. Però ci siamo accorti che c’è un’altra categoria di ‘altri’ di cui si sa poco: quelli che noi consideriamo i mostri, i nemici, intolleranti a tutte le categorie. Sono tanti e, anche se non li frequentiamo, avvertiamo la loro presenza su Facebook, su Instagram, in certi commenti al bar, in un certo senso comune che si fa strada… con loro tendiamo a non parlare mai. Credo che il desiderio di indagarli sia scaturito proprio da questo".

Cosa avete scoperto?

"Che il male è piuttosto banale. Quando siamo andati a cercare queste persone che avevano detto cose orrende, irripetibili, pensavamo che ci saremmo trovati davanti dei personaggi malvagi, mostruosi. Invece erano persone molto simili a quelle che incontriamo tutti i giorni, esseri umani con una loro umanità, una storia, spesso traumatica. Abbiamo scoperto che il modo in cui un individuo arriva a pensare e poi a dire, spesso senza neanche aver ben pensato, certe cose è il frutto di un processo umano e sociale storicamente determinato da una serie di fattori in campo".

Il dialogo è arrivato?

"Ci siamo parlati, sì. Ma è stato veramente un dialogo? Sicuramente un tentativo di dialogo. Parlarsi davvero è difficile, incontrarsi è difficile. Lo è con persone che sono simili a noi, diventa difficilissimo con quelle diverse da noi. Non so se abbiamo dialogato, ma abbiamo certamente cercato nello spettacolo di restituire il senso di fatica e di disperazione che abbiamo incontrato nel corso di questo tentativo".

E la differenza tra virtuale e reale, quanto è grande?

"E’ abissale. Quando percepisci un essere umano come la singola cosa che ha detto e l’unica informazione che hai su di lui è quella determinata cosa – che magari trovi gravissima – non vedi nessuna possibilità di umanità dietro quella persona. E c’è anche un pregiudizio. La linea di demarcazione tra questi mondi è netta e le identità che mettiamo in campo molto diverse. Anche la mia lo è: io non assomiglio molto a quello lì che ha il mio profilo Instagram. Superare questa linea è uno sforzo titanico ed è normale, facile a volte, rinunciare. Però è uno sforzo che ha molto a che fare con il cercare di restare umani, in un momento in cui sembra che sia particolarmente difficile. Questa operazione di ascolto di colui che, a un primo sguardo, sembra irricevibile fa parte di questo desiderio, di questa possibilità di rimanere umani".