
Due scene del film ’Il treno dei bambini’ che è disponibile su Netflix e Cristina Comencini
Signora Comencini, cosa l’ha colpita di questa storia?
«Non la conoscevo ma quando ho letto il libro di Viola Ardone ne ho colto subito la forza, soprattutto nella ‘voce’ di Amerigo, il bimbo protagonista. Ho voluto documentarmi e ho scoperto una storia incredibile di lacerazione e di solidarietà che contiene elementi di profondo interesse anche per la nostra Italia di oggi».
Perché, secondo lei, questa vicenda è ‘epica’?
«C’è l’epica di chi va in guerra e rischia la vita per un ideale: questa è l’epica che conosciamo e che rispettiamo. Ma c’è anche l’epica di quel gruppo di donne che, in un’Italia povera e martoriata, riuscirono a organizzare lo spostamento e l’accoglienza di 70mila bambini che vivevano nella miseria più profonda. Arrivarono nelle campagne attorno a Modena, in famiglie che erano altrettanto povere ma condividevano anche il poco che avevano. Furono vestiti, nutriti, mandati a scuola. Furono amati. Tutto questo rappresenta un’epica delle donne. E questa storia ci racconta un periodo in cui sembrava possibile un Paese unito».
In che modo?
«Nord e sud erano come due mondi distanti, anche con due lingue differenti. Eppure c’era l’idea che il futuro dei bambini italiani appartenesse a tutti, pur fra opinioni politiche diverse. Quello fu anche il tempo in cui venne stilata la nostra Costituzione, in cui si avverte lo stesso spirito: la Carta si scrive tutti insieme, poi ci si confronta. Era un’Italia che oggi non c’è».
Non esiste più un Paese così?
«Quando ci sono emergenze, catastrofi, terremoti, emerge subito lo slancio di aiutare, di portare soccorso. Tuttavia, più in generale, il senso del collettivo, del gruppo e dello stare insieme mi sembra un po’ perduto. Siamo tutti individui più isolati. Eppure il successo del film anche fuori Italia dimostra che la solidarietà resta un valore fondante: quando ci si adopera per una causa, non lo si fa solo per gli altri, ma anche per se stessi. Ognuno, dentro di sé, si sente ripagato dal sentimento dell’umanità».
Il film ci presenta due madri che lei ha definito ‘imperfette’. Perché?
«In un Paese come il nostro, di matrice cattolica, vige sempre l’idea della madre perfetta, la Madonna. Ma le donne sono madri ciascuna a modo suo, e la maternità non le ammanta di perfezione. Le donne sono madri nel momento in cui accade loro di esserlo, proprio come avviene alle due protagoniste. Antonietta vive nella miseria e il suo modo di essere madre è molto duro: lei non ha mai avuto carezze e non ne ha da dare. Derna ha perso il compagno, partigiano torturato e ucciso, e di certo in lei non c’è il pensiero della maternità. Eppure entrambe si trovano nella condizione materna e la esprimono in modo straordinario: la modenese diventa madre per forza d’amore e di cura, mentre la napoletana dà a suo figlio il regalo più bello che può fargli, lo lascia andare via».
Chi ti ama non ti trattiene?
«Qualche volta lasciare andare è un grande atto d’amore. E qui Amerigo, il bimbo, è come l’Italia di allora: va verso un suo futuro».
Avete girato nelle campagne emiliane. È stato difficile ritrovare quei luoghi?
«Cercavamo un podere, una fattoria d’epoca, ma molte case sono state giustamente sistemate e ammodernate. L’abbiamo trovata, ma in fase di postproduzione abbiamo dovuto eliminare molti elementi contemporanei, cartelli, antenne...»
E avete incontrato anche protagonisti veri di questa storia?
«Ogni tanto sul set a Napoli arrivava qualcuno che ci diceva ‘Anch’io ero su quei treni’. Anche la nonna di Serena Rossi era una delle bimbe portate a Modena: durante le riprese sono venuti a Napoli i suoi ‘fratelli’ di allora, i bimbi delle famiglie che la accolsero e si sono riabbracciati. Questo film mi ha fatto conoscere un’Italia pazzesca».