Stefano Bonacini: "Così sono diventato mister Gaudì"

L'imprenditore ha raccontato i suoi esordi ai giovani di Confindustria: "Un magazzino e un furgone usato. Internet? Macché! Se ho bisogno, telefono"

Stefano Bonacini ha raccontato i suoi esordi ai giovani di Confindustria (foto Fiocchi)

Stefano Bonacini ha raccontato i suoi esordi ai giovani di Confindustria (foto Fiocchi)

Modena, 11 marzo 2015 - D’accordo, eravamo negli anni ’90 e fare impresa per certi versi era più facile. Ma non si può dire che Stefano Bonacini, fondatore del marchio della moda Gaudì e amministratore delegato del Carpi calcio, squadra in procinto di andare in serie A, non sia partito da zero. Proprio dei suoi esordi ha parlato ieri ai giovani imprenditori di Confindustria nella sede di via Bellinzona. Un incontro interessante, in cui ha spiegato come si corona un sogno e soprattutto come si mantiene.

Bonacini, come è iniziato il suo percorso? «Erano gli anni ’90. Ero appena tornato dal servizio militare ed ero senza lavoro. Iniziai in una fabbrica come operaio, facendo anche i turni di notte. Andai avanti due anni e mezzo, ma non faceva per me. Poi l’incontro».

Chi si fece avanti? «Un imprenditore del settore pronto moda. Ci mettemmo d’accordo in pochi minuti. ‘Questo è il campionario’, mi disse, ‘prendi la macchina e vai a venderlo. Ti do il 6% di provvigione’. Accettai».

Come andò? «Molto bene. L’azienda passò da un fatturato di 700 milioni di lire l’anno a 4 miliardi. Avevo 22 anni, cominciavo a guadagnare bene. Mi comprai subito il Mercedes bianco... Ma forse guadagnavo troppo».

In che senso? «Il titolare mi chiamò e mi disse chi mi avrebbe dimezzato la provvigione, passando al 3%. Mi consultati con i miei genitori. Mi aspettavo che mi dicessero di restare, magari di trattare per risalire al 4%, ma senza buttare via una carriera appena avviata. Invece mi sorpresero ».

Cosa le dissero? «Che se fossi rimasto mi avrebbero fatto scendere ad una provvigione del 2 e poi magari dell’1%. Dovevo mettermi in proprio. E così feci».

Come fu l’inizio? «Difficile. Eravamo io e il mio socio, l’amico di sempre Roberto Marani. Era il ’95. Avevamo un piccolo magazzino e un furgone usato, dismesso dalle poste. Aveva ancora la scritta Pt sulla fiancata...».

Quali sono state le tappe successive? «Producevamo prodotti per i grandi gruppi, le cose andavano bene. Poi dieci anni dopo abbiamo cambiato strada, lavorando ad un nostro brand».

Perché questa scelta? «Seppur un po’ in ritardo, in quel momento ci sentivamo pronti. E un po’ ci eravamo anche costretti: i grandi gruppi cominciavano a fare approvvigionamenti in Cina, visti i costi bassissimi. Non potevamo stare più in quel tipo di business».

E ora? «Il marchio è internazionalizzato, produciamo anche noi in Cina, paese dove siamo arrivati per primi. Ma disponiamo di strutture anche in Bangladesh e Pakistan. Abbiamo una linea fashion, una basata sul Denim, una per ragazzi e diversi accessori».

Errori commessi? «Per me tanti. Forse fa parte del mio carattere, forse è l’imprenditore che ragiona così. Ma se mi volto indietro sono più le cose sbagliate rispetto a quelle fatte bene».

Perché? «Venivo dalla strada. La mia famiglia era modesta, il primo aereo l’ho preso a 21 anni. La strada per certi versi ti dà una marcia in più, per altri qualcosa ti toglie. Forse se a vent’anni avessi fatto un master negli Stati Uniti avrei evitato certi errori. Ma è andata bene lo stesso».

A distanza di vent’anni rifarebbe ciò che ha fatto? «Sì, anche se con modalità diverse. Il mondo è cambiato, è tutto più veloce e tutto più difficile».

Usa Internet? «Poco. Quando qualcuno mi rimprovera perché mi ha mandato una mail e mi chiede perché non l’ho letta, mi arrabbio. Sono ancora convinto che se hai bisogno di una persona gli telefoni, punto e basta».

Capitolo Carpi Calcio: se andrete in serie A verrete a giocare a Modena? «E’ una domanda a cui non voglio rispondere. Andiamo prima in serie A. Poi, come si dice, se sono rose fioriranno».