Sono in tanti a ricordare Carlo Gobbi, ed anche l’estensore di queste righe ha avuto la fortuna di conoscerlo all’inizio della ’carriera’, la mia ovviamente, perché Carlo Gobbi viveva lo sport italiano da sempre verrebbe da dire: lo sentivo immodestamente vicino, perché come lui ho cominciato scrivendo di hockey, per poi passare alla pallavolo, grazie alla quale l’ho conosciuto, e grazie alla quale, come tanti altri giovani giornalisti, ho avidamente ’succhiato’ i rudimenti di un mestiere che lui interpretava in maniera eccezionale, umana ma inflessibile, competente ma mai dotta.
Erano i tempi in cui tutto non era ancora frenetico come adesso, e c’era modo anche di spendere del tempo insieme: è stata proprio questa l’opportunità che abbiamo avuto noi giornalisti attorno ai sessanta, rispetto ai giovani di oggi, tutto social e selfie: noi una persona incredibile come Carlo Gobbi lo abbiamo vissuto veramente, nelle interminabili trasferte estere, o nelle cene post partita. Ho tanti ricordi di quei tempi, come ad esempio nelle trasferte ad Atene, quando ci ’pilotava’ in albergo dopo la cena, ma non in taxi, proprio a piedi, perché diceva fosse l’unico modo per vedere le cose, o come quando arrivava al Palasport di Viale Molza, e poi al PalaPanini, e io lo salutavo con un timido ’ciao Carlo’. Ero conscio del fatto che ci fosse tra noi una abissale differenza d’esperienza, che però lui colmava sempre con un affettuoso saluto, e la richiesta del mio ’tabellone per segnare i punti’, un foglio A3 mezzo precompilato, che avevo inventato dopo una trasferta in Olanda, e grazie al quale i giornalisti di allora si facevano il tabellino, micca lo aspettavano pronto a fine di ogni set. Io continuo ancora a farlo, adesso al computer, visto che per me è l’unico modo di seguire con attenzione la partita, ed anche Carlo per un po’ proseguì a farsi il suo, anche quando cominciarono ad arrivare i tabellini a fine partita.
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