Urbino, 7 gennaio 2014 - Pubblichiamo in anteprima un estratto della postfazione al libro di Edward Corp «I giacobiti a Urbino - 1717 - 1718. La corte in esilio di Giacomo III re d'Inghilterra».

LA CORTE di Giacomo Stuart, detto il «Vecchio Pretendente» oppure, come sempre accade di leggere in questo libro, «re Giacomo III», fu come una piccola società di naufraghi, litigiosa ma perfettamente regolata nei suoi ritmi di vita e tenacemente rivolta al raggiungimento di un ideale superiore, il ritorno del suo Master in patria come sovrano regnante.

Questo è il senso, altissimo e tragico, di un'avventura umana altrimenti scandita dalle piccole ugge quotidiane, e questo è il valore profondo, io credo, della sua ricostruzione sapientemente condotta da Edward Corp.

Mi sono assunto il compito di curare l'edizione italiana e la traduzione del suo lavoro incontrando alcune difficoltà ma anche quella soddisfazione che, spesso e per fortuna, alle difficoltà si accompagna. La comprensione non immediata della vita di corte mi ha portato talvolta a fantasticare sui personaggi coinvolti, che, con le loro parrucche e le loro acri battute, mi apparivano simili ai protagonisti di un inquietante film di Peter Greenaway, Il mistero dei giardini di Compton House.

La mia soddisfazione, invece, si può riassumere nell'aver percepito alcune suggestioni storiche ed esistenziali di spessore tale da rendere l'opera uno strumento atto a meglio comprendere non solo i fatti raccontati, ma anche qualcosa di più.

Quella che abbiamo di fronte, infatti, è una storia al contrario. Ed è questo ciò che - almeno per me - la rende molto interessante. Ciò che rende tragica e affascinante la storia dei giacobiti in Italia è la sua dimensione controfattuale.

Non ci troviamo infatti a considerare un fallimento annunciato, una disfatta che, con il senno di poi, saremmo obbligati a considerare come già incisa ab origine mundi nel grande libro della storia. Con buona pace di chi vive nella certezza della necessità e univocità del fatto storico, qui assistiamo invece all'umano dibattersi tra le mille eventualità che il futuro ci riserva, ai progetti che si trasformano in scelte indovinate oppure in errori irreparabili.

Poiché, come ha scritto di recente Mario Isnenghi, «niente è stato ineluttabile, ma tutto è stato irreversibile». La restaurazione di un re di casa Stuart sui troni di Inghilterra, Scozia e Irlanda fu infatti una possibilità aperta per decenni ni e di essa non si poté decretare l'esito finale - disastroso per gli Stuart e per i loro fedeli - fino alla battaglia di Culloden nel 1746. A Urbino, in particolare, si tenne corte bandita per oltre un anno. Come scrisse Gaetano Moroni, Giacomo III «si portò in Urbino, trattato magnificamente e come regnasse».

La corte visse in un'atmosfera sospesa, ritenendosi custode del sovrano, depositaria della legittimità e della salvezza del regno. Mentre il mondo onora un altro re e questi è colui che governa davvero, la corte Stuart vive in una dimensione appartata in cui si continuano però a celebrare pubblicamente i rituali della regalità, che in tale modo viene preservata.

I cortigiani riveriscono Giacomo III che, in quel piccolo mondo al contempo reale e controfattuale, è il re. Ed egli, che è persona sacra, ogni giovedì benedice gli ammalati di scrofola, toccandoli sulle guance con una medaglia e compiendo un rito che era tradizionale già nel medioevo.

Intorno alla corte, un intero regno tributa gli onori a questo sovrano legittimo che dovrà nuovamente regnare. Ma questo regno - lo Stato pontificio - non è il suo. «What if», dunque: cosa sarebbe accaduto se il re (o il pretendente, a seconda del punto di vista) fosse riuscito a rientrare trionfalmente in Inghilterra? Questo, invero, non accadde, ma gli uomini che vissero in quegli anni intorno a lui spesero l'intera loro esistenza ed energia per far sì che accadesse. Essi non sognarono solamente, ma tentarono di realizzare questa possibilità. La loro storia, dunque, è una storia vissuta interamente all'interno della dimensione del possibile. Una storia tutta «fatta con i se».

La storia della corte Stuart a Urbino è fatta dei sogni vissuti nelle grandi sale del Palazzo Ducale, in uno scenario che è, anch'esso, interamente comprensibile solo nel mondo girato all'inverso. Certo, il palazzo è bello e solenne, degno di ospitare la corte in esilio: tanto che imembri di essa, nel descriverlo, sono prodighi di parole di elogio.

Ma la contrada che lo circonda, la città, le campagne sono «un luogo dannato», «abominevole», una regione remota e pressoché deserta, raggiungibile solo attraverso strade pessime, irta di colline, senza vallate aperte, senza spazi per passeggiare, fredda e isolata.

I giacobiti vivono nello «Urbino ventoso» di pascoliana memoria, ovvero in quello stesso clima che, circa cinquant'anni prima rispetto alla permanenza della corte Stuart, nel 1665, un anonimo descrisse incidendo sullo stipite di una porta del Palazzo Ducale questa filastrocca studiata di recente da Raffaella Sarti:

E' un paese da cucù

ove il vento ogn'hora sta

sopportar nol posso più

perderei la sanità.

QUALI furono i sentimenti dei cortigiani residenti a Urbino? Quale la dimensione quotidiana del loro vivere? Nelle lunghe ore scandite dai cerimoniali e dall'esercizio delle incombenze giornaliere, essi vissero la calma apparente che maschera l'attesa e l'ansia di ricevere notizie, e che ben presto si trasforma in insofferenza e noia.

Noia: un sentimento che dovette strisciare con ostinazione nelle grandi sale del Palazzo Ducale e che i membri della corte inglese, durante l'anno e più che trascorsero a Urbino, condivisero con le migliaia di anonimi «graffitari» i quali, appoggiati per ore e ore agli stipiti di porte e finestre e agli architravi dei camini, stando di piantone o facendo anticamera, passarono il tempo a incidere sulla pietra parole e disegni, lasciando oggi a noi migliaia di tracce del loro tedio creativo. Non abbiamo ancora ritrovato graffiti eventualmente incisi dai cortigiani di re Giacomo, ma chissà che questo non possa capitare.

La monotonia della loro vita fu peraltro temperata dal rigoroso adempimento delle mansioni, dal cercare il favore del re, dalle passeggiate dentro casa, dai giochi di società, dalle visite in città, dal corteggiare la cantante «Signora Innocenza», da alcuni viaggi, e soprattutto dai concerti - che resero Urbino un importante centro musicale - nonché dall'assidua scrittura di lettere la cui conservazione ci permette, oggi, di riscoprirne la storia. Che cosa resta a Urbino di questi inglesi e scozzesi di spirito duro emalinconico?

Abbiamo la memoria, deformata dagli anni, di una «camera del re d'Inghilterra» nel Palazzo Ducale e conosciamo due ritratti di Giacomo III, uno conservato nell'Oratorio di san Giuseppe e l'altro nel Rettorato dell'Università, cioè in quel Palazzo Bonaventura frequentato durante le «conversazioni».

In un corridoio dell'Albergo san Domenico è visibile la lastra tombale di un membro della corte, mentre l'Università e l'Arcivescovato custodiscono, nei loro archivi, preziose notizie; a voler cercare, altre si troveranno con ogni probabilità nella Sezione di Archivio di Stato. A tutto questo si aggiunge oggi il libro di Edward Corp, che finalmente rischiara una storia troppo a lungo dimenticata. A lui vadano i sinceri ringraziamenti miei e dei suoi lettori italiani.

di Tommaso di Carpegna Falconieri