Pesaro, aggressione sul treno. Dalì patteggia e torna in libertà

Il trentenne d’origine congolese ha raccontato la sua verità

Dalì dopo il processo

Dalì dopo il processo

Pesaro, 21 ottobre 2018 - Lui si definisce tranquillo. Ma gli altri hanno una percezione diversa. Mondele Mambulu Matuka, 30 anni, nato in Congo, cresciuto in Italia, prima a Torino poi a Cesenatico, dilettante, categoria welter (69 chilogrammi), lavori saltuari, con spiccata propensione a cacciarsi nei guai, è stato condannato ieri a Pesaro ad 1 anno e 4 mesi di reclusione (ha patteggiato) per aver tenuto in ‘ostaggio’ due giorni fa il treno regionale Ancona-Piacenza delle 6 del mattino dopo l’aggressione ad una giovane controllore e a tre uomini delle forze dell’ordine.

E’ proprio Matuka detto Dalì l’unico responsabile di quel parapiglia, scoppiato quando il convoglio era in prossimità della stazione di Pesaro. Lui era salito a Senigallia, città dove è accusato di violenza su una donna, accusa che lui ritiene ingiusta affermando di aver avuto un rapporto consenziente tanto che il gip ha rigettato la richiesta di misura cautelare a suo carico.

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Rimane aperta l’inchiesta mentre è stato prosciolto dal reato di lesioni perché non c’era la querela: «Avendo in testa tutte queste brutte cose che mi fanno stare male – ha detto ieri Dalì al giudice De Luca che gli chiedeva di spiegare il perché di quello che ha fatto sul treno – mi sono sentito chiedere il biglietto ma non ci ho capito niente. Mi sembrava di dovermi difendere ancora da qualcosa, di dover spiegare il perché ero lì, perché esistevo, mi sentivo solo. Poi quando ho visto arrivare tre uomini in borghese, non ho capito che erano delle forze dell’ordine. Ho pensato che fossero tre persone che non tolleravamo i neri, che mi consideravano feccia, che la vista del colore della mia pelle gli era insopportabile. Allora ho reagito e non mi ricordo nemmeno come, perché ero completamente fuori di me. Mi sentivo rifiutato e perseguitato, quasi un fastidio per gli altri, tante volte mi hanno detto negro di merda, quindi il biglietto del treno che avevo in tasca non c’entrava più niente. C’era la mia vita in gioco e ho reagito in quella maniera sbagliata. Mi ricordo bene che per mezzora non ero in me. Non riuscivo a calmarmi, ero troppo stanco e nello stesso tempo agitato. Chiedo umilmente scusa alle persone che hanno avuto pugni o spinte o schiaffi da me ma non me ne sono reso conto subito. Soltanto dopo, in tribunale, ho capito cosa era successo. E oggi che c’è stato il processo ho capito che questa è l’ultima chance per non finire in carcere. Ma quella vicenda di Senigallia mi ha molto amareggiato perché non è vera. Io sono un tipo a posto, faccio boxe, non sono il nipote della Keinge come ho detto ma del pugile Zulu che è stato a Pesaro per tanti anni, vedevo Kalambay, mi piace la boxe e non voglio che questa storia mi impedisca di combattere per la federazione. Ma chiedo scusa a tutti, dalla capotreno ai tre ragazzi che hanno cercato di calmarmi».

Dopo il processo, Mambulu Matuka (difeso dall’avvocato Luca Bartolini) è tornato in libertà, è salito su un treno (tutto bene il viaggio) ed è tornato a casa a Cesenatico: «Adesso cerco un lavoro».

Intanto il Siulp col segretario Marco Lanzi scrive: «Sul treno regionale veloce Ancona – Piacenza di venerdì mattina molte persone hanno vissuto momenti di terrore. A fare le spese della furia di un cittadino di origini congolesi di trent’anni sono stati un capotreno donna e tre appartenenti alle forze di polizia che viaggiavano sul treno per conto proprio e sono prontamente intervenuti per bloccarlo. Esprimiamo la nostra totale solidarietà e vicinanza al capotreno e ai colleghi vittime dell’aggressione. Il fatto che nonostante la convalida dell’arresto l’autore dell’aggressione non trascorra un solo giorno in carcere, purtroppo non fa altro che aumentare la convinzione che chi commette dei reati anche con condotte così violente goda di una quasi totale impunità. Servono immediati interventi legislativi che diano un vero e reale valore alla parola giustizia».