
Da sinistra, Salvatore Fiume, Arnoldo Ciarrocchi. Seduto, lo stampatore Bertorello. Con gli occhiali Leonardo Castellani (1936)
Ci sono esperienze che, anche a distanza di molti anni, non si cancellano dalla memoria. Rimangono in attesa, silenziose, e riaffiorano con forza quando meno te lo aspetti. È ciò che mi accade ora, in occasione del centenario della Scuola del Libro di Urbino, mentre tornano vividi i ricordi dei cinque anni trascorsi negli anni Settanta tra le aule e i laboratori del corso di fotografia presso l’allora Istituto Statale d’Arte.
Quella scuola – oggi Liceo Artistico Scuola del Libro – non fu soltanto un luogo di formazione, ma un crocevia di esperienze umane e culturali, capace di imprimere una direzione precisa a molte esistenze. Il centenario diventa così un’occasione non solo celebrativa, ma anche personale: un invito a rileggere la propria biografia alla luce di una storia collettiva. Le sedi espositive previste per l’anniversario – l’ex Biblioteca del Duca e il Castellare, nel cuore del Palazzo Ducale, la Galleria Albani in via Mazzini e la Casa Natale di Raffaello – avrebbero potuto offrire un contesto ideale per raccontare un secolo di arte, insegnamento e sperimentazione. Spazi emblematici, capaci di far dialogare la memoria della scuola con quella, più ampia, della città e del territorio, e persino oltre quei confini.
Eppure, qualcosa è mancato. Manca una narrazione capace di restituire pienamente la complessità e la ricchezza di questa esperienza storica e artistica. Non una semplice celebrazione nostalgica, ma uno sguardo consapevole sul ruolo che la Scuola ha avuto nell’intrecciare formazione, identità e creatività. Perché cent’anni non si raccontano con leggerezza, né si esauriscono nella cronologia di un Regio Decreto datato 1924. Quella data, infatti, segna l’inizio ufficiale di un corso riconosciuto e regolato dallo Stato, ma non l’origine autentica dell’istituzione. Studi storici autorevoli – da Pasquale Rotondi (1948), che ne colloca le radici nel 1814, a Francesco Carnevali (1961), che ne propone l’inizio nel 1861 – mostrano come la nascita della Scuola del Libro sia il frutto di un lungo processo fatto di sperimentazioni, intuizioni e passioni sedimentate nel tempo. Non una meteora improvvisa, dunque, ma il risultato di un dialogo continuo tra arti applicate, saperi umanistici e spirito artigianale.
Oggi, tuttavia, il racconto del passato sembra sempre più affidato a una narrazione tecnologica, talvolta distante e disincarnata, che rischia di smarrire il senso profondo dell’esperienza vissuta. Un’esperienza che – per chi l’ha attraversata – non è fatta solo di opere e documenti, ma di volti, di gesti, di un’aria particolare che si respirava tra le strade di Urbino. Un’atmosfera, questa, che si avvicina più alla letteratura che alla storiografia: basti pensare al romanzo Il volo del falcone (1967) di Daphne du Maurier, che proprio nella città ducale ambienta un racconto carico di tensione, memoria, arte e suggestione.
Forse è proprio in questa dimensione – che oggi decliniamo come "immateriale" – che si custodisce il lascito più autentico della Scuola del Libro. E forse è lì che bisognerebbe tornare a cercare: tra i silenzi delle aule, nei gesti lenti della stampa calcografica, xilografica, litografica, nella polvere sottile dei torchi tipografici, e nei continui aggiornamenti e ampliamenti con nuove sezioni effettuati nel tempo. Il senso profondo di questa scuola, infatti, non risiede solo nella sua struttura istituzionale, ma nella sua natura di comunità viva e resistente.
Celebrarne il centenario significa allora molto più che ricordarne la fondazione: significa riconoscerne la profondità storica, ma anche la forza simbolica, la capacità di rappresentare – per generazioni di studenti, insegnanti e artisti – un luogo di appartenenza, di scoperta, di trasformazione. Le guide indispensabili per mantenere fede a questi principi, utili per tracciare un percorso espositivo coerente ed efficace, non possono che essere ricercate nei fondamenti storici e documentari: nel saggio di Pasquale Rotondi del 1948; nei Cento anni di vita dell’Istituto d’Arte di Urbino – appunti da servire a una storia raccolti da Francesco Carnevali nel 1961; nei testi redatti da Pietro Zampetti con Silvia Cuppini Sassi nel 1986 e da Silvia Cuppini Sassi con Giuseppe Cucco nel 1989; nonché nei numerosissimi scritti monografici di artisti formatisi nella Scuola, composti in occasione di mostre sia a Urbino sia in altre città italiane e straniere. Un percorso espositivo serio e coinvolgente nasce già nella fase di progettazione: richiede soluzioni concrete, funzionali, ma anche emozionali. Deve essere capace di coinvolgere, di parlare con il contesto e con chi lo attraversa. Dettagli, precisione, coerenza di tempo e di luogo: sono questi gli elementi che possono plasmare un linguaggio narrativo autentico, vivo e partecipato.
Claudio Maggini, storico dell’arte