CLAUDIO MAGGINI
Cronaca

Cento anni della Scuola del Libro di Urbino: occasione per coglierne la forza simbolica

Lo storico dell’arte Claudio Maggini: "All’Istituto d’Arte c’era un’atmosfera che si avvicinava più alla letteratura che alla storiografia"

Da sinistra, Salvatore Fiume, Arnoldo Ciarrocchi. Seduto, lo stampatore Bertorello. Con gli occhiali Leonardo Castellani (1936)

Da sinistra, Salvatore Fiume, Arnoldo Ciarrocchi. Seduto, lo stampatore Bertorello. Con gli occhiali Leonardo Castellani (1936)

Ci sono esperienze che, anche a distanza di molti anni, non si cancellano dalla memoria. Rimangono in attesa, silenziose, e riaffiorano con forza quando meno te lo aspetti. È ciò che mi accade ora, in occasione del centenario della Scuola del Libro di Urbino, mentre tornano vividi i ricordi dei cinque anni trascorsi negli anni Settanta tra le aule e i laboratori del corso di fotografia presso l’allora Istituto Statale d’Arte.

Quella scuola – oggi Liceo Artistico Scuola del Libro – non fu soltanto un luogo di formazione, ma un crocevia di esperienze umane e culturali, capace di imprimere una direzione precisa a molte esistenze. Il centenario diventa così un’occasione non solo celebrativa, ma anche personale: un invito a rileggere la propria biografia alla luce di una storia collettiva. Le sedi espositive previste per l’anniversario – l’ex Biblioteca del Duca e il Castellare, nel cuore del Palazzo Ducale, la Galleria Albani in via Mazzini e la Casa Natale di Raffaello – avrebbero potuto offrire un contesto ideale per raccontare un secolo di arte, insegnamento e sperimentazione. Spazi emblematici, capaci di far dialogare la memoria della scuola con quella, più ampia, della città e del territorio, e persino oltre quei confini.

Eppure, qualcosa è mancato. Manca una narrazione capace di restituire pienamente la complessità e la ricchezza di questa esperienza storica e artistica. Non una semplice celebrazione nostalgica, ma uno sguardo consapevole sul ruolo che la Scuola ha avuto nell’intrecciare formazione, identità e creatività. Perché cent’anni non si raccontano con leggerezza, né si esauriscono nella cronologia di un Regio Decreto datato 1924. Quella data, infatti, segna l’inizio ufficiale di un corso riconosciuto e regolato dallo Stato, ma non l’origine autentica dell’istituzione. Studi storici autorevoli – da Pasquale Rotondi (1948), che ne colloca le radici nel 1814, a Francesco Carnevali (1961), che ne propone l’inizio nel 1861 – mostrano come la nascita della Scuola del Libro sia il frutto di un lungo processo fatto di sperimentazioni, intuizioni e passioni sedimentate nel tempo. Non una meteora improvvisa, dunque, ma il risultato di un dialogo continuo tra arti applicate, saperi umanistici e spirito artigianale.

Oggi, tuttavia, il racconto del passato sembra sempre più affidato a una narrazione tecnologica, talvolta distante e disincarnata, che rischia di smarrire il senso profondo dell’esperienza vissuta. Un’esperienza che – per chi l’ha attraversata – non è fatta solo di opere e documenti, ma di volti, di gesti, di un’aria particolare che si respirava tra le strade di Urbino. Un’atmosfera, questa, che si avvicina più alla letteratura che alla storiografia: basti pensare al romanzo Il volo del falcone (1967) di Daphne du Maurier, che proprio nella città ducale ambienta un racconto carico di tensione, memoria, arte e suggestione.

Forse è proprio in questa dimensione – che oggi decliniamo come "immateriale" – che si custodisce il lascito più autentico della Scuola del Libro. E forse è lì che bisognerebbe tornare a cercare: tra i silenzi delle aule, nei gesti lenti della stampa calcografica, xilografica, litografica, nella polvere sottile dei torchi tipografici, e nei continui aggiornamenti e ampliamenti con nuove sezioni effettuati nel tempo. Il senso profondo di questa scuola, infatti, non risiede solo nella sua struttura istituzionale, ma nella sua natura di comunità viva e resistente.

Celebrarne il centenario significa allora molto più che ricordarne la fondazione: significa riconoscerne la profondità storica, ma anche la forza simbolica, la capacità di rappresentare – per generazioni di studenti, insegnanti e artisti – un luogo di appartenenza, di scoperta, di trasformazione. Le guide indispensabili per mantenere fede a questi principi, utili per tracciare un percorso espositivo coerente ed efficace, non possono che essere ricercate nei fondamenti storici e documentari: nel saggio di Pasquale Rotondi del 1948; nei Cento anni di vita dell’Istituto d’Arte di Urbino – appunti da servire a una storia raccolti da Francesco Carnevali nel 1961; nei testi redatti da Pietro Zampetti con Silvia Cuppini Sassi nel 1986 e da Silvia Cuppini Sassi con Giuseppe Cucco nel 1989; nonché nei numerosissimi scritti monografici di artisti formatisi nella Scuola, composti in occasione di mostre sia a Urbino sia in altre città italiane e straniere. Un percorso espositivo serio e coinvolgente nasce già nella fase di progettazione: richiede soluzioni concrete, funzionali, ma anche emozionali. Deve essere capace di coinvolgere, di parlare con il contesto e con chi lo attraversa. Dettagli, precisione, coerenza di tempo e di luogo: sono questi gli elementi che possono plasmare un linguaggio narrativo autentico, vivo e partecipato.

Claudio Maggini, storico dell’arte