
Mauro Marchionni: fu lui a organizzare la trasferta a Bruxelles
Quando sentì il nome "Danilo Cottini" rimbalzare dagli altoparlanti dello stadio Heysel, Mauro Marchionni, all’epoca 32enne, che aveva organizzato il viaggio, capì che non era più una finale di Coppa dei Campioni. Era un incubo. Danilo era uno dei suoi ragazzi, partito con lui da Sant’Angelo in Vado. A 40 anni dalla strage, Mauro ricorda ogni dettaglio con lucidità chirurgica. "Quella sera arrivai tardi allo stadio, verso le 20, dopo un giro per Bruxelles. Avevo un biglietto per il settore Z, come tutti i miei, ma incontrai un bagarino italiano fuori dallo stadio che per ottantamila lire mi propose un biglietto per la tribuna. Quel biglietto del settore Z mi rimase in tasca. Dalla tribuna non ti rendevi conto di niente. Poi ho visto un’onda: la gente che scappava, saltava in campo, cercava rifugio. Lì ho capito che stava succedendo qualcosa di grosso". Aveva organizzato il viaggio per un gruppo di una cinquantina di persone tutti residenti nell’entroterra urbinate, più altri 35 in aereo. Quando la voce dello speaker cominciò a snocciolare nomi di dispersi, Mauro sentì quello di Danilo. "Lasciai tutto, corsi giù. Trovai due o tre dei nostri, erano irriconoscibili: chi senza scarpe, chi con i vestiti strappati, segni in faccia. Non si capiva più nulla. Non sapevamo se Danilo fosse tra i morti".
Mentre lo stadio tornava a riempirsi per giocare — "secondo me fecero bene, se non avessero giocato sarebbe scoppiata una guerra", dice — Mauro si mise in moto. "Disse agli altri: tornate al pullman, io resto a cercarlo". Si rivolse al consolato, entrò anche all’obitorio, vide tre o quattro corpi senza documenti. Cercava Danilo e per fortuna non c’era. Fu una donna del consolato a dargli l’indizio decisivo: "Abbiamo un certo Daunilo Caudinio… potrebbe essere lui?" "Certo che poteva essere lui. Presi subito un taxi e corsi in un ospedale a 30 o 40 chilometri da Bruxelles. Alle sei del mattino lo trovai, in un letto, un braccio quasi ingessato, la gamba ferita. Appena mi vide, ci mettemmo a piangere. Mi disse: "ero sicuro che tu mi avresti trovato e portato a casa". E ripensandosi mi commuovo ancora oggi". Danilo era salvo. Ma senza scarpe, senza pantaloni, senza niente. "Vicino all’ospedale trovai una specie di magazzino, gli comprai tutto quello che serviva. Dopo tornammo al consolato. Poi, un altro colpo di fortuna: "Degli industriali bolognesi ci offrirono tre posti su un volo privato. Così tornammo a Bologna. Là c’erano la mia segretaria, che non aveva mai smesso di cercare notizie, la moglie di Danilo, due amici". Quarant’anni dopo, la ferita resta. Per chi ha perso un amico. Per chi è tornato. E per chi, oggi, può raccontare di aver mantenuto la promessa di riportare tutti a casa. Vivi.
ant. mar.