E la condanna di un imprenditore accende i fari sulla piaga dell’usura

Un prestito con tranche anche di 500mila euro fatto a un industriale del settore slot con tassi tra il 5 e il 10% al mese

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di Elisabetta Rossi

È una sentenza che arriva ad accendere i riflettori sulla piaga dell’usura. Piaga che torna di nuovo a far alzare la guardia, considerate le tante attività rimaste in ginocchio sotto i colpi del lockdown, tra chiusure forzate e rispetto di misure anti contagio.

Qualche giorno infatti fa il Tribunale di Pesaro ha emesso una sentenza di condanna contro Silvio Aldanese, 60enne imprenditore edile originario di Napoli, ma residente a Cattolica, a 2 anni di reclusione più la confisca di circa 167mila euro per usura. La procura di Pesaro (pubblico ministero Silvia Cecchi) gli contestava anche la calunnia e l’estorsione. Per la prima è stato condannato ad altri 2 anni. Assolto invece dal secondo addebito. I fatti risalgono a circa 12 anni fa.

Secondo l’accusa, Aldanese avrebbe prestato soldi in più tranche, tra cui una pari a circa 500mila euro, a un altro imprenditore nel settore del noleggio delle slot machine, applicandogli tassi usurari dal 5 al 10 per cento su base mensile.

Non solo. Per farsi ripagare il debito, sempre secondo l’ipotesi della procura, sarebbe riuscito a far mettere la firma alla sua presunta vittima sulla "promessa vincolante di cessione di un immobile" di sua proprietà, situato a Terni, a un valore reputato di molto inferiore a quello effettivo: 1 milione e 300mila euro rispetto alla stima reale di 1 milione e 700mila.

Quando il debitore ha visto che non sarebbe riuscito a chiudere quel conto in sospeso e a restituire prestito e interessi, ha deciso di denunciare il caso alla procura di Pesaro. L’imputato ha sempre ribadito la propria innocenza. Una volta lette le motivazioni della sentenza, impugnerà la decisione in Corte d’Appello di Ancona.

Tra lui e il suo debitore, c’era a suo dire, un rapporto di amicizia. E in nome di quel legame lui avrebbe prestato soldi all’amico in difficoltà. Soldi che però, nonostante le richieste, non gli venivano restituiti.

Non sarebbero stati interessi usurari, ma solo quello che gli spettava. Quota questa che avrebbe cercato di riprendere attraverso la cessione dell’immobile di Terni. Sul quale gravavano persino 700mila euro di ipoteche, pagate tutte dal creditore. In più non ci sarebbe alcuna perizia agli atti che proverebbe che l’immobile era stato sottostimato. Insomma, la battaglia è ancora aperta. Pronta per il secondo round, appunto il processo di appello.