"Ho messo un po’ di Molise nel mio salotto"

L’architetto e urbanista Gianni Lamedica, 85 anni, ci ospita nella sua casa. "L’unica che abbia fatto. E sembra tutt’altra cosa"

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di Silvano Clappis

In una via piuttosto tranquilla a ridosso dei "Passeggi" risiede l’architetto Gianni Lamedica, 85 anni, urbanista, giunto a Fano da bambino, al tempo della guerra. È sabato pomeriggio di un febbraio uggioso. Accende qualche luce prima di accomodarsi e mentre lo fa mi dice che in questi mesi è uscito da una serie di esami per scongiurare il peggio.

Gianni, (ci diamo sempre del tu da anni) cosa ti ha insegnato questa esperienza?

"Che negli ospedali vi lavora della bella gente, c’è tanta sapienza, abbiamo dei mezzi all’avanguardia, sappiamo dove possiamo arrivare. Altro rispetto ai raggi X di una volta. Ai dottori che mi guardavano ho dato tutta la mia ammirazione e loro che erano sospettosi, guardinghi, si sono dovuti ricredere e dire: grazie a te. Ed io: ma no, grazie a voi. I miei 68 follower a mandarmi baci e abbracci, tieni duro, siamo con te. Allora ho postato un verso di Tagore: ’Non piangere quando tramonta il sole, le lacrime ti impedirebbero di vedere le stelle’".

Non c’è male come inizio. Senti, qual è l’intervento di cui vai più orgoglioso?

"Il monastero delle Benedettine sopra Rosciano. Era il mio primo lavoro negli anni Sessanta. Il primo passa per prendere le distanze dal movimento moderno, razionalista. Cominciamo dal materiale: ho adoperato il mattone che veniva dalle nostre campagne, da Treia, da Orciano. L’insegnamento di una architettura internazionale era leggermente diverso: intonaco bianco, vetro; il vetro l’ho usato anche lì, ma se vedi i colori non sono il bianco, il grigio perla, se vuoi elegante, ma c’è il tentativo di costruire in stretta dipendenza con i caratteri del luogo. Se tu riesci a legare la tua invenzione con i caratteri del luogo forse ce l’hai fatta. Non ho rifiutato gli insegnamenti di Le Corbusier, Gropius, Mies van der Rohe, ma ho capito che non poteva finire così quando questi costruivano con gli stessi caratteri formali sia in Africa che in America, sia in campagna che in città, a nord come a sud. La cultura degli anni Sessanta aveva avuto nuovi maestri, come Alvar Aalto, amante dell’Italia centrale, che guardava i chiostri, i muri spessi, o come Kevin Lynch conosciuto attraverso Giancarlo De Carlo a Urbino. Mi sono avvicinato al paesaggio e allora cominci a segnare degli assi visuali che ti danno le coordinate di quella architettura. Non può essere una architettura che va dappertutto se ha come sfondo la cittadella di Fossombrone o Montemaggiore al Metauro. Deve avere una caratterizzazione, un’attenzione ai caratteri del luogo. Il cimitero dell’Ulivo ne è un esempio".

Parlami della tua casa invece...

"È l’unica casa che ho fatto. Solo per me. E non è un caso. Una vecchia professoressa ogni volta che passava davanti si faceva il segno della croce: questa è una chiesa, diceva. Quelli che distribuiscono la pubblicità: non mettere niente, non è una casa. Perché non ci sono finestre sulla strada. La luce arriva in prevalenza dal patio. Invece mi prendo come complimento ciò che dicevano i miei amici di gioventù: qui da te si sta bene perché sembra di esserci sempre stati. Anni fa ho fatto un viaggio nel Molise più profondo, nell’Appennino, da dove sono venuto via a 5 anni e non ricordo niente. Non è vero. Nella mia casa, inconsciamente, ho sovrapposto i ricordi di Fano e dintorni con quelli della mia infanzia. Dal soggiorno col il tendaggio che si muove al vento come i balconi del sud Italia, alle pareti marrone il colore della mia terra, al cotto che ho messo dappertutto".

Qual è la cosa più cara che tieni?

"I miei quadri. Una passione coltivata dal 1954, ero entrato all’Accademia militare di Modena. Dopo due, tre mesi mi chiesi: che ci faccio qui? Ho capito che volevo costruire, non fare un’altra cosa. Il mio capitano, terziario francescano, a malincuore perché ero tra i primi, mi disse: cosa vorrà fare fuori di qui? Mentre lo pensava, però aggiunse: qualsiasi cosa farà, la farà bene. Così andai a Roma a studiare architettura e presi a dipingere".

Mai esposti?

"No. Ma oggi studiosi, Paolo Clini, e critici, Carlo Bruscia, mi stanno adulando. Sono andati oltre: l’ideale sarebbe far venire qui la gente, esporli in questo contesto. Scordatevelo, ho detto".

Un tuo posto particolare?

"Lo studio, di sotto, ora trasformato in serra, l’unico posto che ha continuità con l’esterno".

Collezioni?

"Niente. Ma in garage ho una Morgan e una Citroen DS del ‘60". Ciao Gianni, alla prossima.