Il Museo dimenticato che tutti vorrebbero

Urbania ha allestito nei sotterranei del Palazzo Ducale una raccolta unica di oggetti di storia dell’agricoltura. Tutto chiuso

Il Museo dimenticato che tutti vorrebbero

Il Museo dimenticato che tutti vorrebbero

di Gianni

Lucerna *

La storia del MUSAA (il Museo di storia dell’agricoltura e dell’artigianato) ha più di quarant’anni. Le vicende dell’istituzione, per l’intrinseca natura degli oggetti e dei temi esposti (per la maggior parte strumenti d’uso e lavori tradizionali, quindi non realizzati per essere esposti o rappresentati) non è mai stata facile e lineare.

Risale, infatti, al 1979 la formazione del primo nucleo di attrezzi e macchine del mondo agricolo (raccolto dai volontari del Gruppo di ricerca di storia dell’agricoltura dell’alta val Metauro, segretario don Corrado Leonardi, presidente chi scrive). Sono invece del 1982 le prime delibere (n. 484 e 488, sindaco Mario Santi) dell’amministrazione comunale con le quali acquisì la raccolta, la denominò Museo del lavoro contadino, diede l’incarico di responsabile scientifico al prof Giorgio Pedrocco (dell’Università di Urbino) e avviò da quel momento una campagna di restauro dei beni più significativi. Bisognerà però arrivare al 1987, su progetto redatto da Giorgio Pedrocco e chi scrive, per vedere le macchine e gli attrezzi dei cicli del grano e del vino trasferiti dal Barco alla cantina del Palazzo Ducale (abbandonata quell’anno dall’azienda agraria del senatore Giovanni Carrara), con l’intento di valorizzare gli stessi sotterranei, gli attrezzi e le macchine. L’idea venne meritoriamente appoggiata dalla preside Marisa Parenti Salvucci della locale scuola media “Nicolò Pellipario“, assieme a un nutrito gruppo di insegnanti con le rispettive classi, i quali avviarono un triennio di studi interdisciplinari conclusisi con l’inaugurazione di una nuova veste museale, intitolata Museo didattico della cultura materiale, realizzata con entusiasmo e partecipazione dagli stessi ragazzi.

L’esperienza non venne replicata e il Museo dovette attendere altri anni (il 1999) per ottenere un nuovo finanziamento, grazie ai fondi del Montefeltro Leader II. L’intento era quello di mettere in rete le esperienze demoantropologiche già esistenti nell’alta valle del Metauro, in sinergia con la Comunità Montana dell’alto e medio Metauro e con i comuni di Urbania (Museo di storia dell’agricoltura e dell’artigianato), Sant’Angelo in Vado (Musei i Vecchi mestieri) e Borgo Pace (Museo del Carbonaio).

Questi istituti – per la prima volta nei nostri territori – vennero dotati di impianti a norma, di allestimenti adatti agli ambienti problematici delle rispettive sedi, con temi didattici non ripetitivi e peculiari, ispirati ai lavori tipici dei rispettivi borghi. La rete prevedeva, sulla scia delle esperienze museali Open Air del nord Europa, anche la collaborazione con agriturismi e aziende artigianali impegnate nel recupero di attività tipiche (con lo slogan: “Nei musei vedi, negli agriturismi fai“). Grazie al lavoro di coordinamento del MUSAA e a collaborazioni con la Comunità Montana dell’alto e medio Metauro e la Provincia di Pesaro e Urbino (assessore prof Paolo Sorcinelli) si pubblicarono volumi interessanti (ai quali contribuì anche la prof Valeria Miniati, docente di Storia delle tradizioni popolari all’Università di Urbino); opuscoli didattici; un sito internet e pregevoli filmati (girati dall’associazione urbinate Videomemorie).

Se oggi Urbania ha un museo di storia dell’agricoltura perfettamente funzionante, collocato nelle ex cantine ducali, con l’itinerario arricchito da foto scattate da Paul Scheuermeier (un maestro della demoantropologia) e da importanti oggetti tradizionali a corredo, lo si deve all’aiuto fondamentale fornito da tutte le istituzioni e persone ricordate, al costante e disinteressato sostegno del professor Giorgio Pedrocco, ma soprattutto grazie alle generose donazioni di oggetti e macchine del mondo agricolo effettuate da tanti cittadini di Urbania e dei borghi limitrofi. L’augurio è che questo patrimonio storico, ormai irripetibile, non sia dimenticato e tenuto chiuso (anche in giorni di festa, come ad esempio per la Befana), che si continui a conservarlo (compresi gli oltre 300 oggetti in deposito), a farlo visitare, reintroducendo le segnaletiche preesistenti, e che in carenza di risorse si ricorra all’attivazione di collaborazioni o al coinvolgimento di associazioni (ad esempio quelle degli anziani), Pro Loco o scuole della città. Auspicabile sarebbe proporre una collaborazione virtuosa con la sezione di Agraria del locale Istituto Della Rovere, associando al progetto – Istituto permettendo – anche la gestione e riorganizzazione degli ortigiardini di Porta Molino.

* ricercatore storico