
Daniele Luchetti
Sabato 14 giugno (ore 21.30) il Pesaro Film Festival inaugura, in Piazza del Popolo, la sua 61a edizione riportando sul grande schermo "La scuola", film diretto da Daniele Luchetti che nel 1995 conquistò il pubblico. Lo sguardo disincantato e ironico di quella commedia ha finito col rivelarsi una fotografia amara, forse profetica, della scuola italiana. Ne abbiamo parlato con il regista, ospite d’onore della serata. Rivedere La scuola, trent’anni dopo, che effetto le fa? "Sono molto incuriosito. Recentemente ho rivisto il film per intero. Mi ha colpito che fosse un film così dialogato. All’epoca non me ne ero reso conto. Il film ha qualcosa di buffo che riesce a superare tante barriere". Trent’anni dopo, cosa è cambiato in quella visione della scuola? "Raccontavamo la distrazione. La vita che ti passa sotto il naso, mentre sei prigioniero di quelle aule. Gli studenti distratti e travolti dagli ormoni, i docenti intrappolati negli anni che scorrono uguali. È un film sul conflitto tra attenzione e distrazione, tra piacere e disperazione. Non pensavamo interessasse, e invece fu un successo". Silvio Orlando, Anna Galiena, Fabrizio Bentivoglio, tra gli attori della pellicola. "Rifare il film oggi? Non saprei come sostituire quel cast, era perfetto". Cosa è successo alla figura dell’insegnante? "Fino agli anni ’70 aveva un ruolo di prestigio. Poi c’è stato un legittimo tentativo di rompere le gerarchie, ma non si è riusciti a riconoscerne il valore. Oggi i genitori non accettano più autorità esterne. Il contratto sociale si è rotto. Eppure vedo nei giovani un bisogno di figure autorevoli. È il sistema a essere sbagliato, a partire da quanto poco viene riconosciuto economicamente il lavoro a scuola". Docenti e studenti continuano a riconoscersi nel film? "Sì. Non c’è stato anno in cui non sia entrato in una scuola a parlarne. Questo fa pensare che io sia un esperto del tema, ma non lo sono. Oggi non potrei più raccontare quel mondo da dentro. Ora lo vedo da genitore, alle prese con nuove sfide: social, telefonini, fragilità psicologiche". Di fronte alle nuove tecnologie, c’è ancora spazio per un cinema civile? "Sto lavorando con una piattaforma e mi chiedono di fare proprio quello che so fare. C’è una parte dell’industria che produce in serie, seguendo mode. Ma c’è anche una zona dove agli autori si chiede di esprimersi. Ho provato l’intelligenza artificiale: siamo ancora lontani da qualcosa che possa sostituire la scrittura umana". Su cosa le piacerebbe concentrarsi oggi? "Il mio desiderio è sempre stato raccontare gli esseri umani. Da vicino, con amore". La colonna sonora fu affidata al jazzista Bill Frisell. Che ricordo di quella collaborazione? "È nata in un’epoca senza internet. Mandavo fax in America dall’ufficio di Cecchi Gori. Frisell ricevette una videocassetta col pre-montaggio e rispose via posta con audiocassette accompagnate da pupazzetti disegnati a mano. Negli Stati Uniti registrammo con musicisti che improvvisavano divertiti sulle scene". Cosa si augura che arrivi al pubblico in piazza sabato sera? "Spero che i ragazzi di oggi si lascino trasportare dal veicolo principale del film: il divertimento". Leonardo Damen