Leoncillo, il grande plasmatore della materia

Prorogata fino alla fine di ottobre l’ampia mostra antologica promossa dalla Fondazione Carifano a Palazzo Bracci Pagani

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di Cecilia

Casadei

Andare a Palazzo Bracci Pagani di Fano per un evento d’eccezione, una mostra che celebra uno tra gli scultori più significativi del dopoguerra. Incontrare le opere di Leoncillo, (Spoleto 1915 Roma 1968), l’artista che a Fano negli anni ’50 aveva realizzato superlative formelle ceramiche per l’altare dell’antica chiesa di San Silvestro in una cromatica alternanza di altorilievi tra figure e sfondo.

“Leoncillo - Nel segno del corpo“, l’evento è curato da Lorenzo Fiorucci, raffinato conoscitore del linguaggio dell’artista, con Carlo Bruscia, che si conferma appassionato ed efficace promotore d’arte. Riunite, per l’occasione, un nutrito numero di opere in un percorso che delinea la poetica dello scultore umbro e restituisce, con una sapiente operazione espositiva e narrativa, un dialogo serrato fra le opere grafiche e pittoriche e quelle scultoree.

La figurazione dei disegni a matita rossa e il tratto sincopato che tratteggia volti femminili, i nudi di donna a matita grassa e la forza del gesto che marca l’essenza dei corpi oltre la forma, le tempere su carta che evolvono verso una sintesi formale, quelle su carta strappata che preannunciano la stagione dell’informale. Come una metafora della precarietà, e dell’angoscia del vivere, trasposizione di un sentire, riferimento ad un mondo ferito e tagliato, sono le opere “Mutilazione“, “Taglio“, “Tempo ferito“, “Taglio bianco“. Emblematici titoli della sezione grafico pittorica quando una sorta di scheletri senza braccia e senza testa rimandano al dolore, alla sofferenza, ai turbamenti esistenziali, pur nel segno della vita, e il corpo diventa “Corpo Dolente“. Poi il trionfo della scultura policroma che permetterà a Leoncillo di attribuire alla ceramica il senso dell’arte e dare un nuovo volto ad una espressione creativa tradizionalmente votata all’artigianalità. Con lui la ceramica si libera dagli schemi della ripetitività, da codici stilistici comuni per assumere una identità libera che si nutre in maniera incondizionata di intuizioni, di sentimento, di idee, di espressività. Le opere di una prima fase alimentate da un carattere espressionista, con la vitalità di una dinamica deformazione, mostrano da subito una forza scaturita anche dalla brillantezza e dalla vividezza cromatica dello smalto che non è solo colore di superficie, seppure il maestro rifuggirà da questo linguaggio per abbandonare il colore, affinchè il tutto avesse il respiro di una sola anima.

E, quando, in una seconda fase, l’espressione di Leoncillo si nutre della esperienza cubista nascono opere straordinarie come il “Ritratto di Mary“, 1953, una terracotta policroma smaltata con geometrie che si sviluppano in una studiata e sorprendente sequenza plastica di pieni e vuoti. Opera di una straordinaria efficacia visiva dai tratti picassiani che in mostra dialoga con una matita grassa su carta, un eloquente disegno che porta lo stesso titolo. Con Leoncillo la ceramica diventa scultura e la conquista della tecnica e delle sue sponde gli permette di sentire in modo più sincero il suo lavoro di scultore, una ceramica che interpreta con grande efficacia il linguaggio dell’arte pura ed è allora che entra in gioco la dimensione della cottura in forno e l’importanza del fuoco per il risultato finale.

Il processo artistico attraversa un rischioso travaglio prima che il parto avvenga e l’attesa si fa trepidante prima che il fuoco restituisca le forme della terra con l’alito della vita e della bellezza che l’artista ha inteso infondervi. L’ultima fase del percorso artistico di Leoncillo che la mostra ripercorre, e che rappresenta la sintesi matura della sua rivoluzione stilistica, è quella dell’Informale, traguardo emblematicamente riassunto dal disegno strappato del 1966 “Donna al sole“ e dalla straordinaria sintesi scultorea, sempre con lo stesso titolo, che ci appare come materia cruda mentre conserva il colore della terra. Un’opera che sa di pane e di vita, creazione primigenia in alleanza con un bianco generatore di luce. Una metamorfosi che scompone la forma e si riallaccia alla genesi della vita.

Più volte invitato alla Biennale di Venezia, artisti come Lucio fontana e Giò Ponti rimasero colpiti dal suo lavoro, il ragazzo taciturno, orfano di padre ancora bambino, che trova il suo posto nel mondo e il senso del vivere e del fare attraverso la ricerca artistica.

Nel suo nome è racchiuso il suo destino, nel suo lavoro l’impronta che la sua arte ha lasciato nella storia, come sottolinea il video a cura di Giovanni Lani a corredo della mostra. C’è nell’opera tutta di Leoncillo la vibrazione dell’essere, la trasposizione di una interiorità, il sentimento del tempo che attraversa le cose e cambia la percezione delle stesse. Sarà lui stesso a scrivere in “Piccolo diario“, 1960: "sono nato in mezzo a vecchie pietre patinate dalla vicenda di tanti secoli, e poi gli stili diversi dei palazzi radunati in un piccolo spazio". C’è nel suo lavoro una schopenhauriana "volontà di vivere" che restituisce l’essenza del mondo, dell’esistenza. Quando Leoncillo riuscirà a squarciare il “Velo di Maya“ per raggiungere ciò che è inconoscibile, per mostrare ciò che è al di là del fenomeno. E la sua narrazione attraverso l’arte diviene la via per eccellenza di liberazione dal dolore. Molte delle sue opere ci danno la misura del rapporto tra la finitezza dell’uomo e il senso dell’assoluto tra il limite umano, quello del corpo che come materia si sfalda e come materia, "creta come carne", nello stesso tempo nasce e si rinnova in una eterna ciclicità. E questa è la forza dell’arte, l’arte che, come si legge dal manifesto di fondazione della Nuova Secessione Artistica Italiana che vede Leoncillo tra i sottoscrittori, "non è il volto convenzionale della storia, ma la storia stessa, che degli uomini non può fare a meno".