
Danilo Cottini, di Sant’Angelo in Vado, fu tra i tifosi juventini travolti nella calca "Caddi a terra, poi il buio". Con lui Raffaele Storti: "La polizia addirittura ci manganellò".
"Mi avevano messo tra i morti. Uno dei soccorritori ha sollevato il mio braccio e ha capito che invece ero vivo". A quarant’anni dalla strage dell’Heysel, Danilo Cottini riesce appena a pronunciare quelle parole. Quella notte del 29 maggio 1985, allo stadio di Bruxelles, la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool si sarebbe trasformata nella tragedia più nera del calcio moderno. Trentanove persone morirono schiacciate nella calca, e Danilo fu scambiato per uno di loro. Era partito da Sant’Angelo in Vado insieme agli amici, con un pullman organizzato da Mauro Marchionni, titolare di un’agenzia viaggio. Aveva 31 anni, oggi ne ha 71. Era l’unico che mancava all’appello. Si è risvegliato all’ospedale di Bruxelles con un braccio rotto e la memoria spezzata. "Io non ricordo quasi nulla. Probabilmente sono caduto e sono stato calpestato. Non c’era nessuno a fermare i tifosi inglesi. Prima ancora della partita avevano cominciato a tirare sassi, ad avanzare. Qualcuno disse ‘affrontiamoli’, ma noi indietreggiavamo. Io sono caduto, poi solo il buio". Danilo perse conoscenza. Fu calpestato, travolto, trascinato via dalla folla. "Mi sono svegliato dentro un pulmino della polizia. Nessuna barella, nessun infermiere, solo corpi caricati uno sopra l’altro. Avevo il braccio rotto. Mi portarono in ospedale". Quasi sicuramente lo avevano scambiato per un cadavere.
Una vecchia foto apparsa su un settimanale, ritrovata per caso, tempo dopo, da una zia a Livorno, lo ritrae immobile a terra tra altri corpi. Un volontario gli solleva il braccio e chiama aiuto. "Guardando quella foto abbiamo capito — dice oggi — che mi avevano messo tra i morti. Non respiravo, o sembrava così". A casa, intanto, lo credevano scomparso. L’inferno dell’Heysel, quella sera del 29 maggio 1985, si era consumato soprattutto nel settore Z. Lì dove si trovava anche Raffaele Storti, partito con lo stesso pullman da Mercatello sul Metauro. Aveva 35 anni, oggi ne ha 75. E quella notte non l’ha mai dimenticata.
"Già all’ingresso c’era qualcosa che non tornava. I segnali c’erano tutti, ma nessuno li raccolse. "Pensavo che la polizia sarebbe intervenuta subito, e invece non è mai arrivata. Bastavano venti agenti. Venti. Ma non c’era nessuno". Raffaele ricorda la rete provvisoria che divideva le tifoserie: "da pollaio", dice. Bastò poco perché cedesse sotto la pressione dei tifosi inglesi. "Io mi sono trovato in mezzo alla ressa. Ho visto i frangiflutti, quei tubi che se ti arrivano all’altezza del bacino ti schiacciano. Ho visto gente cadere, restare incastrata. Sotto di me c’era un uomo sdraiato, di schiena. Per evitarlo ho fatto una capriola e sono finito oltre la rete, nel campo". Aveva un braccio lesionato da un infortunio sul lavoro.
"Pensavo: quando toccherà a me, come farò a scavalcare? Invece la rete è crollata da sola. Si è aperto un varco e ci siamo riversati dentro. Ma la polizia è arrivata solo per manganellarci e farci uscire: dovevano giocare. Ancora ho negli occhi i corpi trascinati per mani e piedi, gettati a terra. Li buttavano come sacchi". Ancora oggi, Storti non riesce più ad andare allo stadio. "Nemmeno nei luoghi affollati. Se cammino per strada e c’è troppa gente, mi sposto. Non lo sopporto".