ELISABETTA FERRI
Cronaca

Mostra del Nuovo Cinema: "Cerco sempre un padre"

Gianni Amelio si racconta: "Vorrei esplorare di più l’universo femminile"

Il regista Gianni Amelio

Il regista Gianni Amelio

A Gianni Amelio, e ad i suoi 80 anni ancora pieni di idee, è dedicata la retrospettiva della 61ª Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro.

Maestro, nei suoi film è sempre presente un mentore, c’è una ragione?

"Possiamo tranquillamente definirla una figura paterna, il padre putativo, che può essere letto poi in tanti modi: una guida, un maestro, ma anche il padre naturale. Ho coniugato questo tema nella mia filmografia in tutte le forme perché – ammette il regista calabrese – avevo bisogno di un padre che non ho conosciuto. Quando avevo un anno e mezzo, è partito per l’Argentina e l’ho rivisto che avevo 16 anni: facevo il liceo, lui invece aveva fatto la terza elementare e per anni non siamo stati capaci di comunicare. Quando poi si è ammalato ed è morto ho capito che si era chiuso anche un pezzo della mia vita: perché finchè una persona esiste, c’è sempre la speranza che questo dialogo possa riaprirsi".

C’è un tema su cui vorrebbe dedicarsi d’ora in poi?

"Vorrei esplorare di più l’universo femminile che finora è stato subalterno. Ma nel mio ultimo film, Il Campo di battaglia, ho molto creduto nel personaggio di Anna, alla quale affido la chiusura. I due uomini della storia sono sostanzialmente dei perdenti, anche se su fronti opposti, mentre lei apre alla speranza con la frase finale: qui non muore nessuno, cioè qui non deve morire nessuno. E’ l’utopia che Anna ha dentro".

Si può paragonare il suo Campo di Battaglia a Orizzonti di gloria di Kubrik?

"Io ce l’ho dentro dal 1957 questa pellicola: la vidi che avevo 12 anni e l’ho rivisto almeno venti volte, piangendo ogni volta sull’ultima sequenza. Quanto a Stanley Kubrik, non era conosciuto nemmeno in America prima di questo film, rimasto comunque incompreso dai critici americani".

Dal passato al futuro: lei non è interessato alle serie televisive?

"E’ molto difficile entrare nel mondo della serialità: mi sono proposto varie volte, ma alle mie condizioni e si vede che non ci siamo trovati d’accordo sulla storia da raccontare. Perché il riferimento è sempre il mercato americano e i loro gusti li conosciamo tutti: il riferimento culturale italiano che loro immaginano è rimasto agli anni Cinquanta. Se non c’è la mafia, la Sicilia, l’aglio appeso alle porte di casa e il tramonto non è l’Italia. Una cartolina, insomma. E io mi rifiuto".

Il Ladro di Bambini è stato un successo mondiale, c’è un altro film che le ha dato simili soddisfazioni?

"Nella mia carriera ho riempito le sale con due film che non potrebbero essere più diversi: Il ladro di bambini, arrivato pure in Australia, e Hammamet, che è stato il mio successo degli anni Duemila. Ma al di là dei premi che mi hanno assegnato, o delle critiche positive ricevute, quello che mi gratifica di più è emozionare le persone che vanno al cinema. Cerco di valorizzare gli attori e di non trascurarli mai perché sono i colori di un pittore: se li sbagli, hai sbagliato il quadro".

Elisabetta Ferri