"Non è collezionismo, questa è memoria viva"

Un pomeriggio tra le stanze di Palazzo Torelli, che si affaccia su piazza Costanzi, dove l’antiquario Romolo Eusebi vive tra rarità e bellezza

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di Silvano Clappis

L’antiquario Romolo Eusebi abita in un palazzo in stile neoclassico che si affaccia su Piazza Costanzi. Si chiama Palazzo Torelli, famiglia che non ha nulla a che fare con lo scenografo fanese Giacomo Torelli, ma è altrettanto famosa. "Quando Torello Torelli nel 1828 convola a nozze con Volumnia Borgogelli, il padre di lei Michelangelo sistema il palazzo per i novelli sposi affidando i lavori all’architetto Filippo Bandini di Faenza che aveva sistemato la chiesa di San Francesco", dice Eusebi in cima alle scale. Ci sediamo di fronte ad un tavolo antico, con il gatto che, indispettito, se ne va e il barboncino nero che invece festeggia l’ospite inatteso.

Romolo, non sapevo di questi altri Torelli...

"L’origine della famiglia è antichissima. Il giurista Lelio Torelli nel 500 fu consigliere di Cosimo I dei Medici (Granducato di Toscana), Silvio Torelli invece emigra in Polonia, traduce il suo nome in polacco, Ciolek, sposa una nobildonna e acquista la contea di Poniatov da cui Ciolek Poniatowski. L’ultimo re di Polonia, Stanislao Poniatowski si dichiara agnato del marchese Silvio Torelli, come derivante dalla famiglia Ciolek. Il marchese nel 1791 riceve l’ordine reale di S. Stanislao. Io sono arrivato qui a fine anni ‘80, acquistando gran parte del piano nobile per adibirlo a casa, studio, salotto, biblioteca, bottega...".

Un luogo adeguato per chi fa l’antiquario?

"Antiquariato nel senso di ricerca dell’antica documentazione della memoria che sta per perdersi, di ciò che altrimenti sarebbe dimenticato. Oggi una lettera, domani un dipinto, un libro. Così ho conosciuto l’ambiente dei bibliofili di tutta Italia, anzi d’Europa. Ho cercato di rinnovare quell’ospitalità salottiera, di essere all’altezza delle mura e dell’ambiente che mi ospita".

Hai milioni di oggetti. Il più prezioso?

"Le cose più belle le ho vendute per sostenere l’attività e portare a casa le cose fanesi. Ho venduto la cartografia del Ducato di Urbino alla Fondazione Caripesaro, i progetti del Vanvitelli per il Lazzaretto di Ancona alla Regione Marche".

Quello a cui tieni di più?

"Difficile. Dovrei dire le scenografie del Torelli, ma farei un torto al Liverani col bozzetto del comodino del Teatro della Fortuna o a Francesco Grandi con le figure del sipario, oppure ai disegni di Giovanni Albertini che fa un rilievo della cisterna del chiostro di San Paterniano permettendoci oggi di conoscere il disegno originale della basilica andato distrutto. Ma anche le caricature dei fanesi del 700, le memorie dell’Amiani, le foto. Sono mattoni che si sostengono l’un l’altro".

A proposito di fotografia, tuo nonno era Alberto Eusebi (1859-1939), un pioniere...

"La storia dell’arte è stata sempre di casa, fin dal 1875 quando Alberto Eusebi conseguì il primo premio alla Scuola d’Arte per il disegno artistico. Ha dato l’impronta, ha impiantato uno studio fotografico dove eseguiva disegni e fotografie all’avanguardia per quei tempi. Ci ha tramandato cultura, modernità perché la fotografia rappresentava allora una grande modernità e quindi mio padre, ingegnere, ha coltivato sempre l’estetica e la scienza oltre alla memoria del passato tramandandola a noi come privilegio non come optional, rispetto all’odierna banalità del quotidiano. Siamo in pochi a guardare indietro con amarezza e avanti con un pochino di sfiducia, sperando che questo capovolgimento porti nuovi modelli di futuro".

Mestiere difficile il tuo...

"Non siamo attaccati alla cornice, al dipinto insostituibile. Non è collezionismo il nostro, è rispetto per i valori che hanno sostenuto il progresso di cui godiamo. Io cerco con le mie forze di fare il meglio, forse il meglio della mediocrità. L’amico Vittorio Sgarbi mi ha detto: sei il primo degli antiquari minori".

Un complimento fulminante!

"Vedi, all’euforia del ritrovamento succede anche la commozione. Martin Lutero che dice messa a Fano nel convento degli Agostiniani. Una lettera del 1701 con cui Alessandro De Luca, fanese, chiede al parroco un certificato di libero stato per sposarsi: racconta che ha più di 60 anni, da giovane era partito per l’Armata veneta di Morosini, è stato prigioniero per 12 anni dei turchi. Se tutto questo è tornato a vivere oggi grazie a una richiesta di matrimonio, per me è un capolavoro. Senza memoria non c’è vita. Se dimenticassimo il passato la vita sarebbe solo una forma vegetativa inutile. Invece abbiamo la speranza di affrontare la durezza della vita che esige molto da noi. Questa speranza ci è data proprio dalla memoria, la certezza che con la memoria si preserva la vita. Non a caso ’Qualcuno’ disse: fate questo in memoria di me".