Molti non se ne accorgono nemmeno. Perché non c’è un segno ad avvertirti che stai entrando in una zona a rischio di nostalgia naturale e, volendo, anche selvatica. Svolti l’angolo in fondo a viale Trieste, lasci le macchine che però ritrovi subito più avanti, inamovibili come scogli ormai piantati per l’eternità, la calata che va avanti verso il locale in legno, poi la lastra d’acciaio di Eliseo Mattiacci (nella foto) la cui fruizione, avverte un cartello, va fatta al sorgere del sole come le pillole, poi la scogliera che si perde laggiù lontano. Un lembo di porto come ce ne sono tanti, anonimo, pieno di auto e di gente, qualcuno si siede per un caffè altri, come in qualunque parte della città, fanno capannello coi loro cani; qualcuno, ormai specie protetta, lancia la lenza verso il canale, lassù dove si allarga e vedi dall’altra parte una linea Maginot di cemento a racchiudere darsene vuote e, sullo sfondo, la sinuosità del San Bartolo e anche il profilo del grattacielo di Rimini. Ti stai convincendo di aver sbagliato posto. Dov’è la magia di quando superavi lo squero, oggi un incidente di percorso, e arrivavi alla sede dei Canottieri? C’è un segreto: risalire lungo il vecchio molo dal pavimento di cemento scalcinato, pigliare in faccia le zaffate dal mare. Ed ecco il miracolo: in piedi, appoggiato con le due mani allo schienale di una panchina, il costume antico di lana tirato giù a mezza chiappa bianca come latte contro il resto del corpo, gambe allargate il giusto, c’è uno che che prende il sole però non per abbronzarsi, ma per curarsi l’artrite come gli antichi. Gira la testa e sorride: "Da ragazz a vnìva maché sa tu pédre Pino, el falegnèm...". Adesso ci siamo, l’odore salmastro si confonde con quello della tintura di iodio che mio padre si spennellava a bottigliate sulle dita gonfie dalle martellate e la schiena a levante a curarsi l’artrite appoggiato a uno scoglio, col costume d’ordinanza di lana nera a mezza chiappa. I più chic avevano anche la cintura bianca.
f.b.