Ragazzini picchiati, abusati, abbandonati "Così cerchiamo di curare le loro ferite"

Lo spaccato di dolore della comunità Acquaviva di Cagli che affronta i disagi mentali dei minori: due professioniste in trincea

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di Elisabetta Rossi

Quasi 200 chiamate da gennaio ad oggi. L’anno scorso erano state 20 in tutto. Alla comunità Acquaviva di Cagli i telefoni squillano almeno una volta al giorno. È la comunità che si occupa di giovani con disagi mentali. Anzi, giovanissimi. Non ci sono più solo adolescenti dai 14 ai 18 anni. Dal 2015, la comunità ha deciso, tra le prime in Italia e nelle Marche, di aprire le porte anche alla fascia dai 9 ai 14. Bambini. Piccole vite all’inizio del loro cammino, ma già in bilico su abissi di dolore, su mostri che non sono purtroppo quelli delle favole. Gli unici che dovrebbero conoscere, a quell’età. E invece c’è chi in mano stringe lamette al posto di bambole o macchinine. E con quelle si taglia sulle braccia, sulle gambe, sulla pelle fresca e tenera. C’è chi ha subito abusi, violenze fisiche, anche sessuali, in casa, in famiglia. Ma c’è chi con gli atti di autolesionismo si è spinto anche più avanti, fino a tentare il suicidio, deciso a morire pur di non sentire più quel vuoto dentro, troppo grande da sopportare.

Riempire quel vuoto di senso, di amore, di vita, è la missione di Lucia Micheli, direttora della comunità (che è gestita dalla cooperativa Utopia), di Luana Pretelli, psichiatra che si occupa di età evolutiva, e di tutta l’equipe di educatori.

Dottoresse Micheli e Pretelli, è un dato che fa riflettere quello sull’aumento esponenziale del numero di chiamate che avete ricevuto quest’anno rispetto al 2021. Aumenta il disagio mentale e addirittura tra i bambini. Come si spiega?

"Viviamo un periodo storico difficilissimo. E c’è da dire che il post pandemia da Covid ha fatto esplodere tutto. Ma soprattutto c’è un senso di vuoto esistenziale che i ragazzi personificano. Le cause possono essere diverse, c’è anche la componente biologica, ma c’è anche la causa ambientale, famigliare. Ogni ragazzo porta con sé anche la storia della sua famiglia, dei suoi genitori. Spesso un giovane abusato è figlio di madri e padri a loro volta vittime di abusi. E noi ci facciamo carico di un dolore che risale a generazioni precedenti"

E dovete affrontare disturbi che si manifestano in forme anche molto violente…

"Innanzitutto – risponde Pretelli – è importante la questione terminologica. Si deve parlare di disagio psichico e non di problematiche psichiatriche, perché con la seconda si finisce per stigmatizzare e invece questi disagi vanno letti in una storia più ampia. Il disagio psichico comprende tutto, la genetica, l’ambiente e la famiglia. Spesso il deficit cognitivo è da incuria. Stiamo vedendo poi anche ragazzini adottati che manifestano traumi non dichiarati dal paese d’origine, bimbi venduti per sfruttamento sessuale. La separazione tra i genitori è il minimo. Ora c’è anche il tema nuovo dell’identità di genere, abbiamo un ospite entrato perchè vuole cambiare sesso. Temi a cui la società non sa dare risposte e creano fratture e dolore nei ragazzi".

Dolori così forti che spingono a farsi del male, a tagliarsi con lamette…

"A tagliarsi con qualsiasi oggetto appuntito capiti a tiro. Ho visto di tutto – racconta la direttora Lucia – Uno dei nostri ragazzi diceva che tutto il dolore dei tagli era comunque meno forte di quello che sentiva dentro".

Come curate questo disagio psichico?

"Detto in sintesi è ’"io nel gruppo e il gruppo nell’io’. La vera terapia è viverecon loro, fare esperienza insieme di gioie e dolori. La parola d’ordine è sempre: consapevolezza. E l’obiettivo è di accompagnarli nell’inserimento in società, trovare a ciascuno il proprio posto nel mondo".

E il rapporto con la famiglia? "Non si spezza mai, anche quando viene sospesa la potestà genitoriale, perché la dimensione affettiva resta per sempre. Ci si deve fare subito i conti. Anche quando ci sono cose gravissime, come abusi sessuali, ma è solo facendo i conti con quella realtà che si combatte contro il disagio. Noi proviamo a creare un’alleanza terapeutica nella famiglia, manteniamo la dimensione affettiva. Non quella di cura, ovviamente. Poi una comunità per minori per funzionare può avere al massimo 10 ospiti. Noi ne abbiamo venti per le due fasce da 9-14 e 14-18"

Ma le richieste di aiuto sono aumentate. Che ruolo hanno le istituzioni?

"Le istituzioni spesso riproducono la frammentarietà delle famiglie, ragazzi che non hanno una continuità di cura, con cambi continui di psicologo ad esempio. Serve una progettazione".